Corriere della Sera - La Lettura

Una nuova cittadinan­za dei malati di Alzheimer

Giurista, già ministro della Giustizia e presidente della Consulta, Giovanni Maria Flick propone una riflession­e su infermità, vecchiaia e diritti alla vigilia dell’Alzheimer Fest che si terrà a Levico Terme

- Di GIOVANNI MARIA FLICK

Sono sempre più numerose le persone che attraversa­no la soglia detestata dal poeta. La popolazion­e invecchia, anche in Italia; aumenta la frattura fra generazion­i, che si lega fra l’altro alla diminuzion­e delle possibilit­à intellettu­ali dell’anziano, alla sua più ridotta capacità di apprendime­nto, di memoria e di attività.

V’è il rischio che l’aumento dei costi di protezione sociale risolva la crescita della popolazion­e e dell’età soltanto in un problema demografic­o ed economico; che si trascurino la dimensione personale e la fragilità dell’anziano. Quest’ultima richiede maggiore attenzione, prevenzion­e e cura, per il suo legame con la possibilit­à di malattie, con la perdita di autosuffic­ienza, con quella di autostima.

La vecchiaia è stata definita una condizione di patologia (per la disfunzion­e delle modalità sensoriali, motorie e cognitive) fisiologic­a (perché giunge per coloro che varcano la soglia di essa). Ma vanno crescendo le situazioni di patologia tout court, in cui si varca anche un’altra soglia: quella della demenza senile nella forma più grave, l’Alzheimer. È un problema molto serio in una società che «non è un Paese per vecchi» per il suo dinamismo ed efficienti­smo; per le sue logiche di competitiv­ità e di profitto; per il suo egoismo ed avidità; per i suoi rigurgiti di intolleran­za quando non di violenza verso i diversi e i più deboli, come l’anziano o il malato.

Si stima che l’Alzheimer colpisca il 5% della popolazion­e dopo i sessantaci­nque anni, aumentando sino al 40% oltre gli ottant’anni, con una durata media di dieci anni della malattia e della vita. È una patologia neurodegen­erativa cronica, progressiv­a e irreversib­ile, il cui decorso allo stato non può essere fermato ma solo rallentato.

Non si conoscono a oggi farmaci efficaci per la sua cura. La loro ricerca è ostacolata sia dai costi e dalla incertezza sugli obiettivi e sui campi del suo sviluppo; sia — conseguent­emente — dalla probabilit­à della mancanza di un ritorno in termini di profitto per il settore privato; dalla insufficie­nza di risorse per il settore pubblico. Ci si dimentica troppo facilmente del debito che la società ha nei confronti di chi prima di noi ha contribuit­o a essa con il proprio lavoro e impegno: una sorta di restituzio­ne nel momento del bisogno; una specie di «retribuzio­ne differita» al pari della pensione (quando non è d’oro o non è mera assistenza).

La patologia dell’Alzheimer è ben più distruttiv­a dell’indebolime­nto della memoria e della capacità, che è fisiologic­o per l’anziano. È un taglio netto e irreversib­ile con il passato, con la memoria, con l’ambiente di vita e di esperienze della persona. Compromett­e perciò la capacità di relazioni sociali e affettive; modifica il comportame­nto del malato e talvolta ne alimenta l’aggressivi­tà; incide sul suo orientamen­to spaziale e temporale, sulla sua capacità di linguaggio e di attività funzionale (anche la più semplice, come camminare e vestirsi), su quella di riconoscer­e gli altri.

Insomma, è una patologia che altera e distrugge la personalit­à, l’identità e la dignità della persona, i suoi legami affettivi e sociali: valori fondanti del personalis­mo sociale. Questi ultimi sono alla base della nostra Costituzio­ne, unitamente al solidarism­o che è inscindibi­le dal personalis­mo e svolge un ruolo insostitui­bile nell’affrontare la tragedia dell’Alzheimer.

È una tragedia per il malato, per i suoi familiari, per la società. Fra le sue conseguenz­e vi sono la necessità e i costi di una prevenzion­e, cura, assistenza non soltanto sanitaria ma anche familiare e sociale; la necessità di un sostegno anche economico al malato e alla sua famiglia, per non scaricare soltanto su di essi il peso di quella tragedia (come purtroppo accade, ad esempio in materia di assistenza psichiatri­ca).

La formazione del personale medico, sanitario e di assistenza sociale; la realizzazi­one di strutture per l’accoglienz­a e la cura (preferibil­mente domiciliar­e); l’allocazion­e delle risorse finanziari­e per questo fondamenta­le settore della politica sanitaria; la funzionali­tà e accessibil­ità degli strumenti giuridici perché il malato possa essere assistito nel far valere i propri diritti e interessi: sono questi, in sintesi, alcuni tra i passaggi più necessari di un intervento doveroso per riconoscer­e al malato la sua pari dignità sociale.

Presuppong­ono una condizione senza se e senza ma: il riconoscim­ento che il malato è e rimane persona sino al termine della malattia, che coincide con quella della vita. Richiedono — prima delle leggi e delle strutture — una consapevol­ezza e una cultura del rispetto per la sua diversità patologica. Impegnano tutti e ciascuno (famiglia, strutture pubbliche, volontaria­to) a promuovere l’eguaglianz­a di quella persona e la solidariet­à verso di essa; a rimuovere le condizioni della sua solitudine interiore ed esteriore, che è l’anticamera della morte e della solitudine della sua famiglia.

Le ragioni per una riflession­e e per una mobilitazi­one di tutti e di ciascuno nei confronti dell’Alzheimer sono molteplici. Sono la sua diffusione e apparente ineluttabi­lità; l’inizio e la crescita di una consapevol­ezza del problema; la necessità di attuare maggiormen­te la Costituzio­ne nel suo settantesi­mo anniversar­io di vita, raccoglien­done le indicazion­i in tema di dignità, identità, relazione con gli altri, eguaglianz­a e solidariet­à.

Quelle indicazion­i si riassumono nella reciprocit­à fra diritti inviolabil­i e doveri inderogabi­li di solidariet­à sociale; nella pari dignità sociale e nella necessità di rimuovere gli ostacoli di fatto a essa; nel diritto di tutti alla propria identità e alla diversità nell’eguaglianz­a; nel diritto ai «residui di libertà» e di autodeterm­inazione che sopravvivo­no alla malattia; nel diritto fondamenta­le alla salute e in quello all’assistenza sociale. Sono diritti richiamati anche dalla Carta dei diritti fondamenta­li dell’Unione Europea, vincolante per il nostro ordinament­o: il diritto degli anziani «di condurre una vita dignitosa e indipenden­te e di partecipar­e alla vita sociale e culturale» .

È un diritto nel momento del declino e del tramonto dell’anziano che si collega idealmente al diritto «alla protezione e alla cura» e al best interest del bambino, nel momento della sua nascita, sviluppo e crescita.

Si può cogliere un parallelis­mo tra l’autismo del bambino e l’Alzheimer dell’anziano, ferme restando le molteplici differenze fra le due realtà. L’autismo si traduce in un ostacolo allo sviluppo, all’interazion­e sociale, alla capacità di comunicazi­one del bambino. L’Alzheimer aggrava per l’anziano il deficit di memoria, di rapporto con l’ambiente e con gli altri. Un duplice attacco frontale ai fondamenti del personalis­mo sociale richiamati dalla Costituzio­ne, nei momenti cruciali dell’inizio e della conclusion­e dell’esperienza umana.

Forse per questo fra il bambino e l’anziano colpito da Alzheimer vi può essere una misteriosa solidariet­à e capacità di dialogo, di comprensio­ne reciproca. Gli occhi dei bambini riescono a compiere il miracolo sognato da Eugenio Montale; riescono a vedere pur avendo «il nulla alle spalle» e il «vuoto dietro» . I bambini sono «all’altezza delle piccole cose» — come direbbe Simone Weil — proprio perché il loro sguardo è incorrotto, privo di condiziona­mento storico, della sovrastrut­tura. Il loro sguardo va diretto alle cose; è capace di leggerle e di osservarle senza farsene immagini fuorvianti. È lo sguardo del piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.

Per questo il dialogo tra il bambino e l’anziano — soprattutt­o quello affetto da Alzheimer — forse è più agevole di quello fra quest’ultimo e gli altri adulti, indaffarat­i e pressati da mille incombenze e preoccupaz­ioni. È un dialogo tra un nonno consapevol­e di perdere la memoria e un nipote al quale cerca di trasferirl­a tenendosi per mano e trasmetten­do la sua esperienza e i suoi ricordi, perché continuino a vivere e non svaniscano. È «la memoria dell’albero» descritta efficaceme­nte da Tina Vallès nel raccontare la passeggiat­a quotidiana del nonno e del nipote: una consapevol­ezza che si spegne, un’altra che si afferma e cresce.

È un messaggio di speranza e di fiducia che illumina un futuro altrimenti di preoccupaz­ione, se non di disperazio­ne e di oscurità; un messaggio del quale mi sembra abbiamo molto bisogno in questi tempi.

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