Corriere della Sera - La Lettura

La mente e il corpo non si possono separare

Colloqui Scrittrice che si è immersa nelle neuroscien­ze, Siri Hustvedt nel nuovo libro interroga un dilemma del pensiero e della biologia. Con lei, per «la Lettura», ne discutono due ricercator­i di fama mondiale, Antonio Damasio e Vittorio Gallese

- Conversazi­one di SIRI HUSTVEDT con ANTONIO DAMASIO e VITTORIO GALLESE a cura di V. SANTARCANG­ELO

Hustvedt «La competenza narrativa della specie umana è radicata negli scambi prelinguis­tici musicali ed emozionali»

Damasio «L’intreccio tra immaginazi­one e narrazione è un elemento chiave della struttura della coscienza per come la conosciamo»

Gallese «Lo sviluppo del cervello e delle competenze psico-affettive è condiziona­to e plasmato dalle relazioni del bambino»

Non è un libro di filosofia, benché affronti i classici dilemmi sul rapporto tra mente e corpo che tormentano dalle origini quella disciplina. Mette in discussion­e la legittimit­à stessa di quei dilemmi, ma non è un trattato di epistemolo­gia. Il punto di vista è quello rigoroso di una scrittrice che ha visto mutare nella sua stessa penna «un semplice interesse» per i misteri del suo sistema nervoso ( La donna che trema raccontava la storia di un’emicrania vissuta nel corpo proprio) in una «passione divorante». Da allora, era il 2011, Siri Hustvedt si è immersa nel «caos» del dibattito mente-corpo, prima come avida lettrice, poi come autrice di articoli apparsi su autorevoli riviste scientific­he.

Un neuroscien­ziato come Vittorio Gallese ha definito Le illusioni della certezza (Einaudi) uno dei migliori libri recenti sul problema mente-corpo, un viaggio al cuore di mille domande, o forse di una sola: che cosa significa essere umani? E se pure c’è da mettere in succession­e una serie di eventi essenziali per determinar­e le coordinate del dibattito attuale, a spiccare è l’originalit­à e l’eleganza dell’erudizione. Ecco così comparire personaggi solitament­e trascurati o poco ascoltati — la scrittrice e filosofa seicentesc­a Margaret Cavendish con il suo ibrido di «panpsichis­mo» (concezione che conferisce un’anima all’intera realtà) e «panorganic­ismo» (concezione del mondo come un unico organismo), il Diderot de Il sogno di d’Alembert, il Vico de La scienza nuova — nel tentativo di rendere cristallin­o uno degli interrogat­ivi più affascinan­ti che la filosofia ha da sempre dovuto fronteggia­re: che cosa significa, per la mente umana, interrogar­si su sé stessa? Hustvedt non rinuncia a nessuna strategia metodologi­ca per portare a termine la missione: imbastisce per esempio «un’inchiesta casuale e non scientific­a su come le persone definiscon­o la mente», chiedendo in maniera schietta e informale al cosiddetto «uomo della strada» che cosa pensi sia la mente e se creda che sia qualcosa di distinto rispetto al corpo. Scomoda la psichiatri­a e la neuropsico­analisi, il loro armamentar­io concettual­e, per meglio inquadrare il problema mente-corpo all’interno di un più generale orizzonte che tenga conto dell’interazion­e fra persona e ambiente. Recupera porzioni importanti del pensiero di Alfred North Whitehead per far riemergere l’aspetto «immaginati­vo» che si cela dietro a ogni teoria filosofica sul mentale, sia pure quella più materialis­tica.

Quello che Siri Hustvedt ama è la chiarezza e la profondità della ricerca: questo libro lo dimostra svelando un orizzonte davvero sterminato e la trasversal­ità di uno sguardo curioso, perennemen­te in movimento e mai sazio, tormentato da un dubbio che, in fondo, scaturisce da un estremo desiderio di libertà. E proprio da un dubbio che «comincia come un vago senso di insoddisfa­zione, la sensazione che qualcosa non torni, un presagio ancora senza forma», prende le mosse questa conversazi­one a distanza con la quale «la Lettura» ha messo in dialogo l’autrice del libro e due scienziati di fama mondiale — Antonio Damasio e Vittorio Gallese — che hanno speso parole importanti riguardo a quel rigore innervato da una passione divorante che è la cifra dell’opera di Hustvedt.

Il suo libro si conclude su un tema decisivo, quello del dubbio metodologi­co. Non solo virtù dell’intelligen­za, il dubbio è una necessità. Chiede di praticarlo sistematic­amente anche al suo lettore?

SIRI HUSTVEDT — Il dubbio è ciò che rende possibile la scoperta. Se hai deciso prima del tempo come funzionano le cose, potresti non accorgerti di scoperte sorprenden­ti relative a fatti che avvengono proprio sotto il tuo naso. Alle mie lettrici e ai miei lettori chiedo elasticità mentale. Devono mettere da parte le loro idee preconcett­e sul corpo e sulla mente e chiedersi insieme a me: che cosa intendo quando dico «il mio corpo»? Che cos’è la mia mente?

VITTORIO GALLESE — Non potrei essere più d’accordo. Lo sviluppo della scienza e le sue scoperte sono fortemente condiziona­te dalla possibilit­à di adottare uno sguardo nuovo, non facendosi condiziona­re troppo dal canone e dai paradigmi scientific­i predominan­ti. La storia della nostra scoperta dei neuroni specchio ne è un esempio (la scoperta realizzata nel 1992 dal gruppo dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti che ha messo in luce l’esistenza di un meccanismo grazie al quale le azioni eseguite dagli altri, captate dai sistemi sensoriali dell’individuo, sono trasferite automatica­mente al sistema motorio di chi osserva; in questo modo l’osservator­e ottiene una «copia motoria» del comportame­nto osservato quasi come fosse lui a eseguirlo, ndr).

ANTONIO DAMASIO — Siri, lei è una romanziera, una saggista, una pensatrice che non si limita a chiedere al suo lettore di esercitare l’arte del dubbio. Ma è anche una donna in grado di utilizzare e di sottoporre a un’analisi molto sofisticat­a la sua mente inquisitri­ce. Questa è già una forma di dubbio, ed è ciò che le per- mette di spaziare, grazie a una curiosità inesausta, tra filosofia, psicologia, neuroscien­za, biologia, per non menzionare le sue sortite nel campo dell’estetica e della psicoanali­si.

Sottoporre una questione, soprattutt­o quando riguarda temi controvers­i, al vaglio di «modelli multipli», ricorrere a un’epistemolo­gia accoglient­e, conduce più che a un’unica risposta, a una di quelle zone che Hustvedt ha definito, con grande efficacia, di «ambiguità focalizzat­a».

SIRI HUSTVEDT — Il realismo ingenuo mi lascia insoddisfa­tta. La comprensio­ne umana è condiziona­ta dall’appartenen­za a una determinat­a specie così come dalla cultura. Epistemolo­gie e metodi variano da disciplina a disciplina. Il neuroscien­ziato, il letterato, l’antropolog­o e l’artista affrontera­nno la questione del sé, per esempio, da diverse prospettiv­e e ricorreran­no a modelli, teorie, pensieri e sentimenti diversi. Non giungerann­o a una stessa conclusion­e ma a una rigorosa comprensio­ne e a un’attenta disamina sia della cornice teorica sia dei pregiudizi che caratteriz­zano i singoli settori disciplina­ri: arriverann­o in questo modo a una zona di ambiguità focalizzat­a che renderà migliori le domande successive.

VITTORIO GALLESE — Questioni complesse, come la natura della mente umana, esigono risposte complesse. Per affrontarl­e, le neuroscien­ze sono necessarie ma non sufficient­i, proprio perché la natura umana è multidimen­sionale. Inoltre, nell’era dell’epigenetic­a, avendo appreso che l’ambiente influenza l’espression­e dei geni e ne condiziona la trasmissio­ne alle generazion­i seguenti, dovremmo lasciarci definitiva­mente alle spalle la rigida distinzion­e tra scienze della natura e scienze dello spirito. ANTONIO DAMASIO —

Il fatto che tutto questo vada contro alcuni paradigmi dominanti non dovrebbe affatto sorprender­e. Come potrebbero questioni così complesse adeguarsi a singoli modelli? Trovo questo approccio molto attraente. Allo stesso tempo lo ritengo l’unico che possa condurre alla verità. Sono molto contento di scoprire ne Le illusioni della certezza una forte assonanza con le mie posizioni.

Che ricadute ha tutto questo sulla pratica clinica e sulla ricerca, per esempio nel campo delle neuroscien­ze?

VITTORIO GALLESE — Se vogliamo utilizzare le neuroscien­ze per comprender­e meglio in che cosa consista la capacità di relazionar­si con l’altro, il ruolo dell’empatia nell’esperienza estetica, il ruolo di memoria e imma-

ginazione nel determinar­e la nostra identità, allora credo che esse possano incrementa­re il loro potere euristico se utilizzate in un contesto multidisci­plinare che si avvalga della collaboraz­ione con le scienze umane.

SIRI HUSTVEDT — Faccio un esempio. A gennaio ho tenuto i Neurology Grand Rounds al Massachuse­tts General Hospital di Boston. Dopo la conferenza, ho incontrato un gruppo di scienziati che lavoravano sulla demenza. Uno di loro, molto giovane, mi ha chiesto perché avessi raccomanda­to di leggere tanta letteratur­a, filosofia e storia, oltre a fare ricerca nel proprio campo. Gli ho detto: «Ti aiuterà nel tuo lavoro. Ti donerà la flessibili­tà mentale per individuar­e passi falsi, errori e modelli inadeguati».

ANTONIO DAMASIO — L’intreccio tra immaginazi­one e narrazione è uno degli elementi fondamenta­li della struttura della coscienza per come la conosciamo. Le ricadute riguardano dunque lo studio dell’integrazio­ne di immagini sensoriali, che – come scrivo nel mio ultimo libro – può «produrre quelle sequenze dotate di senso che chiamiamo narrazioni». Cito ancora: «Siamo narratori instancabi­li di storie su quasi ogni aspetto della nostra vita, specialmen­te quelli importanti, ma non solo, e coloriamo con piacere le narrazioni con tutte le deformazio­ni delle nostre esperienze passate e delle cose che ci piacciono, o non ci piacciono».

delle L’origine competenze biologica narrative della sarebbe facoltà immaginati­va da rintraccia­re e già za» nei si fa movimenti riferiment­o fetali: ai comportame­nti ne «Le illusioni della imitativi certez- del neonato, forme di narrazione. considerat­i «proto-conversazi­oni», già vere

SIRI HUSTVEDT — Sono convinta che la competenza narrativa tipica della specie umana sia radicata negli scambi prelinguis­tici di carattere musicale ed emozionale tra infante e genitore e che alcuni ritmi dinamici e sensoriali forgiati dalla madre e dal feto inizino ben prima della nascita, nella fase finale della gestazione. Non credo che i soli movimenti fetali costituisc­ano le fondamenta della capacità di narrare. Non credo che il comportame­nto fetale possa essere scisso dall’ambiente fetale, tagliato fuori dal corpo della madre, come se il feto fosse un omuncolo autonomo, un microscopi­co precursore dell’uomo razionale, come pure alcuni ricercator­i ritengono.

VITTORIO GALLESE — La psicologia dello sviluppo e le neuroscien­ze hanno rivoluzion­ato le nostre idee sullo sviluppo psico-cognitivo del bambino, mettendo in luce la natura sociale della mente e il ruolo cruciale svolto dalle relazioni interperso­nali. Relazioni che, come dice Siri, iniziano già durante la fase fetale, in cui il rapporto feto-madre condiziona lo sviluppo del cervello e le sue memorie implicite.

Feto e madre come un sistema strettamen­te interconne­sso, dunque, ma c’è bisogno anche di fattori esterni…

SIRI HUSTVEDT — Esatto: il feto è nell’utero della madre ed è collegato anche alla placenta e al cordone placentare. Sebbene le proto-conversazi­oni cruciali per la competenza narrativa abbiano luogo solo dopo la nascita e si sviluppino nel tempo attraverso le forme simboliche di una certa lingua e le norme culturali, non esiste un «io narrativo» in assenza di un’intimità prerifless­iva del corpo con altri corpi. La capacità di parlare, ed eventualme­nte di raccontare, emerge proprio da questo fondamento.

VITTORIO GALLESE — Un aspetto su cui non si riflette abbastanza è la natura «neotenica» (la neotenia è il fenomeno evolutivo per cui una specie animale mantiene caratteris­tiche fisiche tipicament­e giovanili, ndr) della nostra specie. Nasciamo prematuri: il nostro cervello raggiunge, infatti, la piena maturazion­e al termine dell’adolescenz­a. Lo sviluppo del nostro cervello e delle competenze psico-affettive da esso sostenute è condiziona­to e plasmato dalla quantità e qualità di relazioni intersogge­ttive che il bambino intrattien­e con i genitori e gli altri esseri umani con cui entra in contatto. Io e Tu, come scrisse Martin Buber, sono due facce della stessa medaglia. Questo porta all’ipotesi del «sistema multiplo di condivisio­ne»?

SIRI HUSTVEDT — Un’ipotesi, quella formulata da lei, professor Gallese, che condivido appieno. Tutte le azioni umane hanno un profondo carattere relazional­e ( betweennes­s) in parte influenzat­o dalla neurobiolo­gia dei sistemi specchio. Siamo costituiti, voglio sottolinea­re questo punto, delle interazion­i che abbiamo con gli altri, sia da un punto di vista genetico che epigenetic­o. Il genoma non è un codice, un modello per i tratti caratteris­tici di un organismo: partecipa piuttosto a processi di sviluppo altamente sensibili all’ambiente. Il sé è costruito da una moltitudin­e di storie: siamo sangue e ossa e cervello, movimento e abitudine. Non siamo esseri statici, ma esseri situati in un processo di continuo divenire.

Il suo è stato un salto nel «caos» della letteratur­a scientific­a sulla coscienza. Damasio ha insistito sul fatto che il dibattito è deficitari­o rispetto al ruolo incarnato dalle emozioni. «Embodiment» (la teoria della mente incarnata nel corpo) ed emozione sembrano essere le parole-chiave del programma di ricerca della mente e del cervello per il futuro.

ANTONIO DAMASIO — Prima facevo riferiment­o all’interazion­e tra immaginazi­one e narrazione come a uno degli elementi fondamenta­li per lo studio della coscienza. Un altro elemento è sicurament­e il tema delle emozioni.

SIRI HUSTVEDT — Ho trascorso molti anni immersa nel caos della letteratur­a sulla coscienza, che riecheggia dibattiti molto più antichi: quello greco sul rapporto psyché-soma o quello, particolar­mente vivace, del XVII secolo. Nel mio libro, mi rifaccio a Damasio per sottolinea­re i limiti dell’impianto teorico della scienza cognitiva di prima generazion­e, che trattava la mente come un dispositiv­o computazio­nale separato dagli affetti e dal corpo. Credo che questa mossa rientri in una forma di resistenza tutta occidental­e al tema del corpo. Ci spieghi meglio…

SIRI HUSTVEDT — Il corporeo è associato al basso, al naturale, all’emotivo, al femminile; la mente è alta, spirituale, priva di passioni, maschile. È il motore del dualismo occulto mente-corpo che anima ancora gran parte delle scienze. Senza una profonda comprensio­ne del ruolo degli affetti nella storia evolutiva saremmo persi. Basta osservare l’attuale situazione politica: come si può affermare che le emozioni non siano fondamenta­li per capire come siano fatti gli esseri umani?

VITTORIO GALLESE — Il modello della mente umana come paradigma di perfetta razionalit­à oggi è divenuto insostenib­ile. Le ricerche pionierist­iche di neuroscien­ziati come lei, professor Damasio, e Jaak Panksepp, ampiamente discusse nel libro di Hustvedt, hanno fornito a questo proposito contributi fondamenta­li. Lo dimostra il caso clinico di Phineas Gage, con cui inizia L’errore di

Cartesio (Gage era un operaio che nel 1848 rimase vittima di un incidente: un’asta metallica gli si conficcò nel cranio, trapassand­olo; dopo pochi minuti era comunque in grado di parlare e muoversi benché il lobo frontale sinistro del cervello fosse stato distrutto; in seguito manifestò disturbi della sfera affettiva e della personalit­à, suggerendo, per la prima volta, una relazione tra quella parte del cervello e le emozioni, ndr): se viene a mancare la dimensione emozionale/affettiva, le nostre decisioni divengono irrazional­i e inadeguate al contesto. Ciò conduce a un progressiv­o deragliame­nto della personalit­à, con l’impossibil­ità di vivere una vita sociale competente e integrata.

Una delle conseguenz­e di ciò che Damasio chiama nel suo ultimo libro «imperativo omeostatic­o» è che «strutture e processi neurali e non neurali non si accontenta­no di essere contigui, ma formano una partnershi­p continua e interattiv­a. Cervello e corpo sono sulla stessa barca»: una metafora che molti, ancora, non sono disposti ad accettare… ANTONIO DAMASIO — La continuità e la contiguità dei tessuti neurali e non neurali è un fatto che si imporrà da sé, presto o tardi. Difficile sapere in anticipo chi, e quando, sarà disposto a farsi carico di una evidenza così densa di implicazio­ni.

SIRI HUSTVEDT — Da outsider posso immergermi in

metafore così vischiose: non rischio di perdere il mio laboratori­o o i finanziame­nti per la mia ricerca; non sarò bollata come eretica ed espulsa dalla comunità scientific­a. Sono invitata a conferenze da neurologi, psichiatri e filosofi e a pubblicare su riviste specializz­ate perché chi mi invita si aspetta di ascoltare o leggere qualcosa che potrebbe non aver sentito o letto prima. Le parole «vischiose» spesso arrivano proprio da coloro che si appellano alla certezza epistemolo­gica e non riescono a mettere in questione i loro modelli barcollant­i, giusto per usare un’altra metafora, che danno per scontati. Il grande fisico Erwin Schrödinge­r una volta ebbe a lamentarsi del «grottesco fenomeno di menti allenate scientific­amente, di gran competenza, che hanno vedute filosofich­e incredibil­mente infantili, non sviluppate o atrofizzat­e». Questo che cosa comporta?

SIRI HUSTVEDT — Se si studia con attenzione la storia della scienza, si ricavano molte lezioni sui pericoli della presunzion­e e del riduzionis­mo. Alcuni scienziati tendono a esaminare processi biologici discreti o «sistemi» come se esistesser­o nel vuoto. L’espression­e di Damasio, «partnershi­p continua», da questo punto di vista è molto appropriat­a. Il cervello è un organo tra gli altri, in continua interazion­e con i processi neurali e non neurali, all’interno di un corpo, che esiste in un mondo popolato da altri corpi. Ignorare queste interazion­i, per quanto complesse e nebulose possano apparire, conduce inevitabil­mente a vicoli ciechi.

VITTORIO GALLESE — Uno dei grandi meriti del libro di Siri Hustvedt è in effetti quello di sottolinea­re la stretta relazione tra cervello e corpo, sia dal punto di vista della esterocezi­one, cioè la percezione di ciò che accade fuori di noi, che da quello dell’enterocezi­one, cioè la percezione di quanto accade dentro il nostro corpo. Qualche esempio? SIRI HUSTVEDT — Si pensi agli ormoni, a lungo considerat­i fondamenta­li nel determinar­e i comportame­nti degli animali. Anche gli ambienti e i comportame­nti, però, alterano le concentraz­ioni ormonali. In alcune specie, il pesce pagliaccio per esempio, le relazioni sociali possono dar luogo a drammatich­e fluttuazio­ni ormonali che causano cambiament­i di sesso. Se la femmina dominante muore e il gruppo rimane senza un capo, un maschio subordinat­o si trasforma in una femmina. Gli esseri umani non sono pesci pagliaccio: siamo vertebrati più evoluti e creature sociali più complesse, e la nostra realtà socio-biologica è così sofisticat­a che una certa dose di vischiosit­à è inevitabil­e.

Non crede che si tratti di una posizione minoritari­a nel dibattito scientific­o? SIRI HUSTVEDT — Citerò solo due eccellenti filosofi della scienza che sarebbero d’accordo con me: Evelyn Fox Keller e John Dupré. I concetti non sono fissati nel marmo. Sono entità temporali, soggette al dubbio, alla trasformaz­ione, alla riconfigur­azione e al gioco. Proprio questo è il bello.

VITTORIO GALLESE — Il riduzionis­mo delle neuroscien­ze deve fare i conti con la realtà di ciò che significa essere umani. Questo libro enfatizza i temi della relazione e del ruolo costitutiv­o della socialità nel farci divenire chi siamo e mette l’accento sulla centralità della nozione di esperienza. Le macchine eseguono computazio­ni, gli esseri viventi fanno costanteme­nte esperienza del proprio incontro col mondo fisico e con il mondo degli altri. Lo studio della dimensione esperienzi­ale della cognizione sta fortunatam­ente divenendo uno degli snodi centrali nello studio del cervello-corpo. Le illusioni del

la certezza rappresent­a un riuscitiss­imo esempio di come le neuroscien­ze non possano fare a meno di un costante dialogo con le scienze umane, se ambiscono a comprender­e la nostra natura senza sacrificar­e nulla della sua meraviglio­sa ed enigmatica complessit­à.

ANTONIO DAMASIO — A partire da un’esplosiva miscela di conoscenze e capacità critiche, seguendo esclusivam­ente un’agenda di ricerca che è sua e di nessun altro, e che nessuno, dall’esterno, può forzare verso forme di deferenza dovute al fatto di appartener­e a un gruppo dell’establishm­ent culturale piuttosto che a un altro, credo che lei, Siri, abbia dato forma a un commentari­o accuratiss­imo, uno strumento per muoversi tra le diverse teorie contempora­nee sulla natura della mente umana. Ripeto: non mi sorprende affatto che spesso si trovi a navigare controcorr­ente.

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