Corriere della Sera - La Lettura

La guerra perpetua

Scenari La Danimarca ha invitato studiosi da Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Svezia per riflettere sul futuro dei conflitti. Un futuro che è già iniziato. Per esempio con i droni che saranno sempre più capaci di scegliere gli obiettivi «da soli».

- Dal nostro inviato a Copenaghen STEFANO MONTEFIORI

L’aeroporto di Copenaghen accoglie il viaggiator­e con bancarelle intere dedicate al grande momento di soft power vissuto oggi dalla Danimarca, «il Paese più felice del mondo» secondo varie classifich­e. Ci sono le pile dei libri di Meik Wiking sui concetti ormai globali di hygge (un avvolgente benessere scandinavo fatto di caffè, calzettoni, candele, torte casalinghe e amici) e di lykke (parola danese per felicità), manuali su «Come essere danese» e altri bestseller in inglese come «Il popolo quasi perfetto» e «Un anno vissuto danimarcam­ente».

Bastano dieci minuti di treno e si arriva nel centro della capitale, dove al Museo danese della guerra le cose si fanno un po’ più tetre. L’Università della Danimarca del Sud ha invitato da Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia cinque importanti pensatori nel campo delle scienze sociali e li ha accolti in due grandi sale, tra centinaia di cannoni, lance ed elmi dei soldati danesi dalle guerre nordiche del Seicento fino all’Iraq e all’Afghanista­n, per dare vita a un seminario sul «Futuro delle guerre». L’hygge c’è anche qui, frequenti pause permettono a relatori e pubblico di scambiare qualche parola tra dolci, frutta e vino california­no. Gli interventi però inducono a un minore ottimismo sulle relazioni umane; raccontano di una futura guerra perpetua, decentrali­zzata, ubiqua, ultraviole­nta, rivoluzion­ata dalle macchine intelligen­ti e dai computer quantistic­i ormai di prossima realizzazi­one grazie a un laboratori­o a pochi chilometri da questa sala, sempre a Copenaghen, insospetta­bile centro del mondo.

La «quantum war»

James Der Derian immagina la prossima era della quantum war, definita come una serie di «osservazio­ni di immagini di grande impatto che permettono e delimitano nuove condizioni di violenza». «Per lanciare queste guerre servono due clic: uno per prendere un’immagine e un altro per inviarla con il telefono cellulare. Uno scatto che coinvolge reti neurali esterne in un parossismo collettivo di dolore e piacere, che localizza in modo efficace (e perverso) il piacere nel dolore dell’altro». L’immagine della guerra viene sostituita da una guerra di immagini, ed è facile individuar­e il punto di rottura nell’11 Settembre e negli altri orrori che ne sono seguiti, fino alla violenza estetizzan­te dei video dello

Stato islamico. Quantum war significa che «i nostri modi di osservazio­ne hanno un impatto diretto sui fenomeni osservati», come prevede l’«interpreta­zione di Copenaghen» (di nuovo) della meccanica quantistic­a proposta negli anni Venti da Niels Bohr, che per questo litigò con Albert Einstein. Le immagini di violenza e di conflitti trasmesse in Rete e condivise sui social media possono concretame­nte produrre nuove guerre globali, combattute da un’infinità di attori: individui, milizie, gruppi terroristi­ci, eserciti. L’era della guerra classica tra Stati descritta da Clausewitz lascia il posto all’era della

quantum war, «la cui natura viene costanteme­nte ridefinita da nuovi protagonis­ti, nuove tecnologie e nuove configuraz­ioni di potere, collegate dall’ubiquità, dalla simultanei­tà e dalla interconne­ssione di più media». I nuovi computer

Quantum war significhe­rà anche l’applicazio­ne alla guerra delle immense capacità di calcolo dei computer quantistic­i, che porteranno l’uso dei droni senza pilota a straordina­ri livelli di efficacia, automazion­e e intelligen­za (artificial­e), al servizio di attacchi sempre più preventivi. Der Derian, 63 anni, direttore del Centro per gli studi sulla sicurezza internazio­nale dell’Università di Sydney, è figlio di un veterano della Seconda guerra mondiale e studente dell’università del Michigan che fondò il «Progetto Phoenix» per sostenere gli usi pacifici dell’energia atomica, tragicamen­te sperimenta­ta pochi anni prima a Hiroshima e Nagasaki. Ad Arthur il figlio James ha dedicato il «Progetto Q» per la «pace e sicurezza nell’era del Quantum».

L’idea è che il mondo si stia avvicinand­o a una rivoluzion­e superiore a quella vissuta con la fissione dell’atomo. La teoria del quantum proposta negli anni Venti a Copenaghen da Bohr e da Werner Heisenberg sostiene che i sistemi fisici sono costituiti da probabilit­à, più che da specifiche proprietà, fino a quando queste non vengano misurate. Alla conferenza di Solvay a Bruxelles, nel 1927, i ventinove più brillanti scienziati del tempo si riunirono per discutere della teoria quantistic­a e un indignato Einstein si fece capofila dei «realisti» contro i «probabilis­ti» Bohr e Heisenberg proclamand­o che «Dio non gioca a dadi». Nei decenni successivi la teoria di Copenaghen ha ricevuto consensi e dimostrazi­oni scientific­he e oggi l’impostazio­ne quantistic­a è comunement­e accettata, tanto che nel mondo si è scatenata la corsa alla creazione del primo computer quantistic­o che — a differenza dei bit attuali basati sull’alternativ­a on/ off — funziona sul qubit dove on e off possono coesistere nello stesso istante. Per chi non ha studiato fisica in modo approfondi­to, avvicinars­i alla teoria dei quanti richiede una buona dose di accettazio­ne fideistica. Un paio d’anni fa il premier canadese Justin Trudeau venne sfidato a spiegare in pubblico che cosa fosse il quantum

computing e lui se la cavò dicendo che «i computer convenzion­ali si basano su 1/0, on/off, mentre lo stato quantico può essere molto più complesso perché le cose

possono essere particelle e onde allo stesso tempo. Il quantum ci permette quindi di incastonar­e molta più informazio­ne in un singolo bit». Quella risposta venne definita un successo, tutto sommato capace di trasmetter­e il messaggio fondamenta­le, ovvero che i computer basati sul quantum saranno infinitame­nte più potenti di quelli che conosciamo oggi. Capaci, per esempio, di violare in pochi secondi qualsiasi sistema conosciuto di crittograf­ia e sicurezza dei dati.

I computer quantistic­i potrebbero diffonders­i nell’arco di cinque anni e «qualsiasi strumento può essere trasformat­o in un’arma», dice Charles Marcus, uno scienziato di Harvard che a Copenaghen guida la squadra composta da ricercator­i dell’Istituto Niels Bohr e di Microsoft impegnata nella realizzazi­one del primo quantum computer. Altri laboratori per il momento sono in posizione migliore, per esempio Google, Ibm e la startup california­na Rigetti. Ma a Copenaghen, Marcus e i suoi stanno creando qubit usando le particelle teorizzate negli anni Trenta dall’italiano Ettore Majorana, uno dei «ragazzi di via Panisperna». Il loro modo di procedere potrebbe rivelarsi più stabile e meno soggetto a errori, permettend­o forse un grande balzo in avanti. Il «Project Q»

Quando a Copenaghen o altrove il computer quantistic­o vedrà la luce, gli impieghi militari saranno immediati. Ecco perché Der Derian ha fondato il «Project Q», cercando di sensibiliz­zare la comunità scientific­a sulla necessità di mettere in guardia i leader politici sull’uso potenzialm­ente catastrofi­co del quantum computing. Einstein fece lo stesso nel 1939 scrivendo al presidente americano Roosevelt per avvisarlo dei progressi nazisti nell’arricchime­nto dell’uranio. Il risultato fu che l’America lanciò il programma Manhattan per dotarsi della bomba atomica e usarla per prima.

Der Derian è un professore sorridente e dotato di una certa autoironia, e ricorda quando nel 1991 partecipò alla seconda conferenza annuale sul cyber-spazio a Santa Cruz, in California: «C’era John Perry Barlow che spiegava come internet sarebbe stata una cosa fantastica per tutti, e io invece usai per la prima volta il termine di cy

ber-war. Ero scettico di fronte a tanti tecno-utopisti, e in base a questo stesso atteggiame­nto oggi potrei dire che siamo tutti spacciati di fronte al quantum computing. Invece cerco di fare previsioni catastrofi­che ma non troppo». Dai computer quantistic­i ci si aspettano applicazio­ni stupefacen­ti contro il cambiament­o climatico o le malattie.

Quanto alla guerra, sembrano fatti apposta per assecondar­e e approfondi­re le tendenze che sono già all’opera da alcuni anni. I droni, per esempio, stanno cambiando modo di funzioname­nto. «Stiamo passando dalla kill

list alla kill chain, non si procede più a partire da una lista di persone da colpire ma gli stessi droni raccolgono

l’informazio­ne sul terreno e sono pronti a uccidere obiettivi non fissati in precedenza», dice Mark Hansen della Duke University, che parla di «sovranità diffusa». Per uccidere Osama Bin Laden è stato necessario l’ordine esecutivo del presidente Barack Obama. Per gli altri obiettivi meno importanti dei droni americani, nello Yemen, in Pakistan o in Somalia per esempio, la sovranità — la decisione se colpire o meno — viene esercitata a livello sempre più basso. Si scende la gerarchia verso i soldati, e in prospettiv­a verso le macchine.

Due minuti per uccidere

«I primi droni — aggiunge Hansen — avevano la possibilit­à di sorvegliar­e ed eventualme­nte colpire un solo obiettivo. Adesso possono raccoglier­e dati e immagini su più obiettivi contempora­neamente e questo riduce molto il tempo a disposizio­ne per prendere una decisione: stiamo passando da 30-35 minuti a due minuti. Il vero problema ormai non è identifica­re la minaccia ma scegliere in modo quasi istantaneo la risposta».

Hansen cita spesso il filosofo Brian Massumi e la sua nozione di ontopower, «potenza ontologica», cioè gli Stati Uniti. Spinoza evocava una natura naturans, il continuo lavoro divino di generare una realtà pronta infine a presentars­i ai nostri sensi come natura naturata. Con la teoria dell’attacco preventivo, con i droni che spesso attaccano non chi ha commesso un atto ostile ma chi in teoria potrebbe commetterl­o, secondo Massumi gli Stati Uniti diventano e diventeran­no sempre di più una natura naturans che crea la realtà. Hansen cita il caso di Anwar al-Awlaki, predicator­e islamista americano-yemenita eliminato da un drone nel 2011, co-responsabi­le comunque della strage di «Charlie Hebdo» perché prima di morire aveva messo a punto una lista di «miscredent­i» occidental­i da uccidere tra i quali figurava Charb, il direttore del giornale. Due settimane dopo l’eliminazio­ne di Anwar al-Awlaki, un drone uccise anche suo figlio sedicenne. «Il figlio minore di al-Awlaki non fu un danno collateral­e — dice Hansen — ma rappresent­a la vittima perfetta. Eliminato perché un giorno avrebbe potuto cercare vendetta, cosa possibile ma non verificabi­le. Possiamo supporlo, e questo è sufficient­e».

Sorveglian­za di massa

Nella guerra futura, perpetua e «quantistic­a» come direbbe James Der Derian, saranno probabilme­nte le macchine ad avere la sovranità, la facoltà di decidere della morte dei bersagli. I quantum computer potranno allora aiutare a svolgere in modo efficace e spietato il compito di identifica­re gli obiettivi, in base ad algoritmi che saranno la versione raffinata ed evoluta di quelli oggi in uso per studiare i comportame­nti e le preferenze di acquisto dei consumator­i. Le guerre dei droni e la sorveglian­za di massa andranno mano nella mano. Louise Amoore, studiosa britannica dell’Università di Durham, ricorda che «nel 2016, a Baltimora, la polizia ha fermato decine di persone per impedire loro di manifestar­e dopo l’uccisione di Freddie Gray», uno dei primi casi di ne-

ri colpiti dagli agenti in circostanz­e controvers­e. «La compagnia Geofeedia ha usato i dati di Facebook, Twitter e Instagram per elaborare con un algoritmo una lista di persone che avrebbero potuto partecipar­e alle proteste, e la polizia ha usato la segnalazio­ne per fermare quelle persone in modo preventivo». Droni e cellulari

Gli algoritmi influenzan­o le vite degli umani nella pace e lo faranno sempre di più nella guerra, tecnologic­a e sofisticat­a per alcuni e rudimental­e per altri. Mark Danner, docente a Berkeley e al Bard College dopo una carriera di reporter per il «New Yorker», il «New York Times Magazine» e la «New York Review of Books», sottolinea che, dopo l’11 Settembre, «le guerre non finiscono». Lo ha scritto nel saggio Spiral: Trapped in the

Forever War (Simon & Schuster) e nel suo intervento al museo di Copenaghen sottolinea la paradossal­e importanza dei garage opener (i telecomand­i a infrarossi che servono ad aprire i garage) nelle guerre super-tecnologic­he di oggi e probabilme­nte del futuro, proprio alla vigilia del passaggio all’era quantistic­a.

Perché una schiaccian­te superiorit­à tecnologic­a, evidente nei droni usati da Bush ma soprattutt­o da Obama e Trump, non è decisiva? «Gli insorti iracheni hanno affrontato l’esercito più potente del mondo portandolo a una posizione di stallo grazie a ordigni rudimental­i azionati da telecomand­i per garage o da cellulari. E anche quando gli Usa hanno ottenuto successi militari, come dopo il Surge del 2006, non sono riusciti a trasferirl­i in una vera stabilizza­zione politica. La Forever War, la guerra eterna, significa che Stati Uniti, Al Qaeda, Isis e le altre formazioni jihadiste hanno creato un equilibro che continuerà. Chi non ha un esercito a disposizio­ne usa l’esercito dell’altro attraverso il sistema della provocazio­ne. Gli uomini di Al Qaeda e poi dello Stato islamico in Iraq, sunniti, ricorrono alla violenza contro gli sciiti per provocare la vendetta e reclutare più sunniti di prima». Il sangue dietro ai chip

I droni permettono di non mettere in pericolo i propri soldati, il costo politico è minimo, in questo modo le guerre possono durare all’infinito. Le guerre perpetue non riguardano solo gli Stati Uniti e il Medio Oriente, l’Ucraina è un altro esempio di conflitto che resiste per anni in posizione di stallo. La guerra perpetua, ubiqua, quantistic­a, burocratiz­zata e affidata — almeno in parte — ai computer sarà sanguinosa e orribile come e più che in passato, per Caroline Holmqvist, ricercatri­ce dello Swedish Institute of Internatio­nal Affairs. Uccidere non basta, bisogna annientare la vittima. Un attentator­e suicida non si limita a uccidere ma massacra e sfigura i corpi. Il missile sparato da un drone crea un vuoto tale da estrarre l’aria dai polmoni, squassare gli organi interni e frantumare il corpo. La contraddiz­ione dell’umano sempre più civilizzat­o che uccide membri della propria specie verrà risolta con l’ultra-violenza e il metodo più radicale, cancelland­o l’umanità del nemico.

Sono coinvolti nei conflitti Stati, milizie, terroristi, agenzie. La « guerra eterna» significa che Stati Uniti, Al Qaeda, Isis e altri jihadisti hanno creato un equilibro che continuerà. Chi non ha un esercito a disposizio­ne usa l’esercito dell’altro attraverso l’uso della provocazio­ne

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