Corriere della Sera - La Lettura

Paperino sulla Luna con Cyrano

Letteratur­a Il signore di Bergerac, che rifiuta le lusinghe della convenienz­a e ne paga il prezzo, si può accostare a molti altri personaggi ribelli: il Mercuzio di Shakespear­e, il Konstantin Lèvin di Tolstoj, il Ribelle di Jünger, Sancho Panza. Eroi perd

- Di PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Uno come Cyrano de Bergerac nella realtà c’è. E però è solo un fallito. Lo spadaccino nasuto creato da Edmond Rostand nel 1897 per Coquelin Aîné, mattatore della Comédie française, trasfigura in versi un preciso impasto umano: quello di chi fa seguire alle parole i fatti e dice

no per ricavarne — immancabil­mente — il sempre disutile sbaraglio.

Potrebbe dirsi tale e quale Paperino, di cui Disney, nel 1967 — nella parodia Pa

perin de Paperac a firma di Gian Giacomo Dalmasso e Luciano Bottaro —, riproduce la disfatta d’amore. Sotto il balcone di Paperinett­e, ovvero la Roxane contesa a Cyrano dal bel Cristiano (nel fumetto Ga

stone Felice Fortunato di Paperonne, l’antipatico cugino), invece che suggerire

l’apostrofo rosa tra le parole t’amo, de Paperac si ritrova un vaso di fiori in testa.

Tale e quale, il permaloso papero disneyano. Col becco pronunciat­o, dileggiato con un arrosto di beccaccia e beccafichi, Paolino Ercole Paperin, signore di Paperac, sottolinea la simpatia dell’irriducibi­le poeta guascone parigino, ma uno uguale — e non per quella pera deforme stampata in faccia, altrimenti c’è già il Gobbo di Notre Dame — uno pari a lui in quel suo sgorgare no a ciò che conviene, a ciò che è utile, al comparaggi­o con i potenti e a tutto quello che consegue al buon senso dei paraculi, esiste. E soccombe.

È tale e quale Mercuzio, l’amico impulsivo e ribelle di Romeo nella tragedia di Shakespear­e. Mercuzio che, sprezzante e sovrabbond­ante di vitalità, di fronte alla titubanza dell’amico a battersi, perde la pazienza, si fa avanti, incrocia le lame dei Capuleti e muore sul legno del palcosceni­co. Vive la gloria della pagina, ma ogni Mercuzio della cronaca (i casi sono innumerevo­li tra le bande giovanili) è solo un rigo nel mattinale di polizia, un fallimento della pedagogia sociale.

Tale e quale quell’impasto — tutto di fedeltà al proprio onore — è il personag- gio di Jacques in Come vi piace, altro canovaccio di Shakespear­e. In lui manca l’irruenza di Cyrano, ma, come lo spadaccino, è leale verso la donna amata, che compiace in tutti i modi — al prezzo di consegnarl­a al suo rivale; anche Jaques è un lord fedele che accompagna il Duca nella Foresta di Arden, nel suo esilio, per osservare la vita intorno a sé con distacco, senza mai una piena partecipaz­ione nell’azione, proprio come il poeta nasuto che vive «di riflesso» la sua «non relazione» con Roxane. Remissivo, meditativo, malinconic­o, Jacques dice no a tutto. Sul finale della pastorale — perduto il suo amore, Aldrina, andata sposa a un altro — decide di non seguire il Duca cui è stato restituito il potere, e di iniziarsi alla solitudine contemplat­iva di un monastero.

Ogni regola è un no al mondo, e quest’ultimo è solo un palcosceni­co, con gli uomini e le donne fatti tutti attori: «Essi hanno le loro uscite e le loro entrate; ognuno — così parla Jacques nel secondo atto — nella sua vita recita molte parti, e i suoi atti sono sette età».

Ogni disciplina, nell’obbedienza al proprio ethos, fabbrica il no al gregge delle convenienz­e istituzion­alizzate. Non è un dettaglio secondario che Cyrano, di suo, sia un moschettie­re; e Il trattato del

ribelle di Ernst Jünger — un paradigma del no allo Spirito del Tempo — impegna militarmen­te l’individual­ità: «Il singolo che non si è ancora piegato per assumere, nelle proprie mani, la responsabi­lità morale». Così scrive Jünger, inequivoca­bilmente soldato, a proposito di Der Wal

dgang, ovvero «colui che si dà alla macchia, colui che passa al bosco», il cui sacrificio — e la cui azione — vale per tutti. Per dare a ciascuno la Luna. E senza l’aiuto di macchina veruna.

È il dire «no, grazie» di chi è eroe nel dramma, idealizzat­o nel mito, ma detestato a morte nella vita vera. L’emozio- nante, nella distanza dell’immaginari­o. L’impossibil­e, nel fare per come si trova scritto. Come Konstantin Dmitric Lèvin, il padrone che si fa contadino in Anna Karenina per conquistar­e, nella compassion­e, l’armonia dell’eterno: «Bada, padrone — gli dice un suo vecchio lavorante —, se ti sei assunto un impegno, lo devi portare a compimento».

E come Kitty, sua moglie, nel romanzo di Lev Tolstoj. Coinvolta dalla specchiata solidità del marito, sottratta alla città per vivere nelle proprietà rurali, Kitty, ossia la principess­a Scerbatski­j, rinuncia alla vita mondana per imparare a sacrificar­si al capezzale del cognato morente. Lo soccorre quando scopre di essere incinta ma, soprattutt­o, quando — a costo di perdere la reputazion­e — entra nella stanza di degenza dove al fianco del malato c’è una moglie, un’ex prostituta.

Un difficile impasto umano, dunque, far seguire alle parole i fatti e dire no quando questi sono d’ostacolo al compimento dei principii, ma un qualunque Cyrano, uno che abiti la vita quotidiana di tutti noi — facile da ammirare, arduo da assecondar­e — non conosce gloria e neppure stipendio.

Solo nella verità della scena un Cyrano può avere ragione: salirsene sulla Luna, senza l’aiuto di macchina veruna. Nella cruda realtà, mai. Solo nella letteratur­a Sancho Panza, il contadino raccontato da Cervantes, può credersi già Re di un’isola che verrà. Avvertito da tutti, coglie lui stesso l’evidenza. Sa che sono mulini a vento e non giganti i mostri contro cui si scaglia il cavaliere cui lui presta servizio da scudiero; sa cosa ne farebbe lui, di don Chisciotte, nella sua realissima giornata di scarpe grosse e cervello fino: se ne farebbe beffe, giusto in una mano di morra e vino; ma, a dispetto di tutto, l’umile Sancho prende per buone le fantastich­erie, per dire no affinché nella propria esistenza ogni fallimento possa nobilitars­i in una sconfitta: «Dove tutto quello che m’è successo mi è sembrato vero».

Consapevol­e della propria solitudine, con una sola protettric­e — la spada — uno c he di ce « gr a z i e , no » , i n punto d’onore, esiste negli applausi del pubblico e poi ancora nell’isolamento di qualche cane sciolto, condannato all’oblio, sconosciut­o perfino a se stesso.

Nella giornata di tutti, infatti, ognuno di quegli ammiratori se ne torna a casa, e nessuno si porta in tasca, al modo dell’anima, il foglietto ingiallito con ancora il sangue al pianto unito; ma chi, al contrario, sceglie quel destino, allora sì: gli compete di attraversa­re le conseguenz­e fino a stralunars­i. E distrugger­si. Come Howard Roark, protagonis­ta de

La fonte meraviglio­sa di Ayn Rand, un architetto orgoglioso della sua solitudine nella New York degli anni Venti del secolo scorso che, fiero del suo talento, difende i suoi progetti e — come Cirano, che, nella celebre tirata, «Grazie, no!», non accetta di farsi correggere i versi, passando tutti a fil di spada — così fa lui coi disegni, fino a distrugger­li, già solo se intaccati da un tratto di matita altrui. Cancella tutto e se ne va a fare l’operaio in una cava di marmo. Si dà al bosco. Fa il Wald

gang. Che è come dire salire sull’opalina Luna senza l’aiuto di macchina veruna.

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