Corriere della Sera - La Lettura

Così odiate e così desiderate Le prostitute male necessario

- Di ANNACHIARA SACCHI

Sandra è una «fanciulla», chissà di quanti anni, arrivata chissà da dove. Nel luglio del 1488, a Firenze, viene venduta per tre fiorini a un certo Bernardino Fede e portata nel postribolo pubblico cittadino, dove presterà il proprio corpo per ripagare il compratore della somma versata, l’equivalent­e di un «asino in buone condizioni». Sandra non è una schiava, quelle valgono molto di più, tra i 45 e i 60 fiorini. È una prostituta, come la dodicenne (tredicenne, al massimo) ceduta, sempre a Firenze, da un ruffiano spagnolo a uno piemontese per due fiorini e due soldi. Valgono poco le donne che nel Medioevo si concedono « pro pretio, lucro, et questu ». Poco come la loro fama, i loro diritti, i loro averi. Disprezzat­e e «necessarie», proibite e accettate in una società ambigua e contraddit­toria che tollera il sesso a pagamento per «salvare» la collettivi­tà e la sua virtù.

La teoria del «male minore» è il terreno su cui prospera la prostituzi­one nell’Europa medievale, spiega la storica Maria Serena Mazzi in La mala vita (il Mulino). E cioè la condanna assoluta da parte della Chiesa cui si accompagna, contempora­neamente, una consapevol­ezza: il meretricio è indispensa­bile agli uomini per sfogare i loro impulsi. Quindi sì, meglio sacrificar­e alcune ragazze destinando­le alla strada per salvare le donne oneste dai crimini sessuali e, non secondaria­mente, cancellare l’«abominevol­e vizio della sodomia». Una piccola dose di vizio per mantenere l’ordine generale, l’ipocrisia è evidente, come alcune parole che — ancora oggi — servono per definire il fenomeno: «il mestiere più antico del mondo». Il saggio di Maria Serena Mazzi è un’indagine storica che non ha niente di piccante (piuttosto molto di triste) e affronta con rigore le condizioni delle prostitute tra XIII e XV secolo in Italia, Francia, Spagna; ne racconta — attraverso documenti, registri, cronache, prediche — la vita quotidiana, il vincolo con i protettori; confronta le leggi che regolano l’«esercizio»; osserva la volontà morale e politica di dare recinti (anche reali) al «commercio delle carni» per porre fine a stupri e violenze. Da qui la creazione di bordelli pubblici, in qualche modo «disciplina­ti», ritenuti argini all’aggressivi­tà di molti: tanta legiferazi­one in merito, pochi risultati.

Nel settembre 1436 Truchin, venuta dalle Fiandre, si presenta all’ufficio dell’Onestà di Firenze e si registra (un obbligo) come donna pubblica. Le vengono assegnati una bottega e un «materassin­o» nel quartiere dei bordelli, dove vivono 71 prostitute e 28 lenoni. Le «colleghe» di Truchin sono ex serve violentate dal padrone e poi cacciate, giovani poverissim­e vendute dalle stesse madri, vedove. Per loro una vita itinerante, fatta di percosse, ricatti, debiti. E regole. Su giorni di «lavoro» e riposo, orari, vestiario: nel XIV secolo a Venezia le prostitute devono portare un fazzoletto giallo al collo, a Milano e Pavia un cappuccio bianco, a Padova rosso, a Torino un copricapo alto e cornuto cui si aggiunge dal 1456 una stringa gialla sulla manica, a Siena un sonaglio sulla spalla, come i lebbrosi. Segni per riconoscer­e una «mala vita» spesso disperata, molto diversa da quella delle colte cortigiane del Cinquecent­o. Per le prostitute medievali non esistono agi. Solo gli insulti di una società che le odia e le vuole.

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