Corriere della Sera - La Lettura
I contadini irlandesi sono dei miti È il lato violento di Edna O’Brien
«Un feroce dicembre» sacrifica la grazia all’implacabilità. Ma ha le sue buone ragioni per farlo La storia Tutto si svolge in una provincia rurale in cui gli uomini si comportano come animali e le bestie piangono come cristiani
Posso solo immaginare il fascino esercitato da W.B. Yeats sugli scrittori irlandesi. Come resistere al suo incantesimo? Un archivio inesauribile di atavismi celtici, echi ossianici, folklore patriottico, primitivismo rupestre, orgoglio isolano, il mistero che interroga il sovrannaturale; e poi ci sono loro naturalmente: le fiere eroine irlandesi.
Prendiamo Edna O’Brian. Un caso davvero interessante. In un certo senso la sua opera non fa che interrogare l’ombra incombente di Yeats. Ne ha assimilato così profondamente umori e archetipi da riuscire a piegarli a esigenze realiste, epurandoli nei limiti del possibile da ogni misticismo d’antan e caricandoli di brutalità. Intervistata dal «Guardian» sulla questione, O’Brien si schermiva: «Io non sono come Yeats, totalmente consacrata all’occulto, né lo rifiuto del tutto».
Il Prologo di Un feroce dicembre — fortunato libro di una ventina di anni fa che Einaudi Stile Libero ha finalmente tradotto e mandato in libreria — ha toni yeatsiani: «Campi che contano più dei campi, canti che si traducono in sposalizi che si traducono in sangue; campi persi, riconquistati nell’altalenante, frammentario ordine delle cose; i figli di Oisin, i figli di Conn e di Connor, i figli di Abramo, i figli di Set, i figli di Rut, i figli di Dalila, i figli guerreggianti di guerreggianti figli condannati a quella stessa ir- resistibile schiavitù della follia che è il marchio dei vivi, quasi dovessero tornare indietro nel tempo e nello spazio, tornare al vuoto annichilente per riconquistare un terreno perduto per sempre».
Certo, solo un Prologo può permettersi cadenze così sfacciatamente oracolari. Ma occorre aggiungere che per una volta la retorica, la magniloquenza sono funzionali, fornendo al lettore coordinate indispensabili per districarsi in un mondo così asfittico e siderale. Siamo in Irlanda, ecco il punto. E mica nella brulicante Dublino dei coniugi Bloom, ma a Cloontha, «una località racchiusa entro la curva di un’insenatura»: provincia rurale in cui gli uomini si comportano come animali e le bestie piangono come cristiani. Tutto è grigio, incombente e un po’ sinistro: fango, torba, pioggia, nevischio, paludi, pascoli, bestiame, persino un trattore imponente e zoomorfo come un drago... I rapporti sociali, come in tutte le comunità arcaiche, sono fondati su leggende, superstizione e intimidazione. Più che essere umani, gli autoctoni sembrano creature mitologiche: dal Ca- torcio, uno storpio malevolo e ripugnante, alle sorelle Rita e Reena, arpie ninfomani e intriganti.
Per evocare questo mondo fantasmatico e ferino O’Brien utilizza una tecnica che mescola Cubismo a Espressionismo, lavorando per giustapposizioni ellittiche, scomposizioni, repentini cambi di punto di vista: «La pioggia scrosciava preceduta dal suo rumore, e non era la solita pioggia; era appesantita dalla grandine e un vento dai quattro angoli del mondo acquistava forza, le raffiche sballottavano la cima degli alberi, i rami impazziti, la ciotola di Goldie turbinava e capitombolava in fondo all’aia e i due uccelli morti che posati sul cofano aspettavano di essere spiumati prendevano vita, le piume sul petto si aprivano e loro si sollevavano in aria e facevano un piccolo giro che simulava la libertà, simulava la vita». Eh sì, perché a Cloontha è difficile distinguere il vivo dal morto, i corpi dagli spettri, il presente dal passato, come se ogni cosa fosse intrappolata in un Purgatorio nero e dolente. Poca luce, troppa terra, nessuna promessa paradisiaca.
Già alle prime battute capiamo che una faida secolare minaccia i protagonisti.
Michael Bugler, vissuto tanti anni in Australia, è tornato a Cloontha per investire forze e sostanze nella terra ereditata dallo zio. Purtroppo per lui i suoi possedimenti confinano con quelli di Joseph Brennan. Se Bugler è bello, virile, a suo modo elegante, Brennan è uno straccione astioso e collerico. Se Bugler è proteso verso il futuro, Brennan è incastrato in un passato mitico e gravido di risentimenti. Per avere idea di come O’Brien ci vada giù duro, sentite cosa dice degli occhi di Brennan: «Avevano il colore scuro della melassa, erano profondi come laghi, occhi marroni, feriti, quasi che da piccolo glieli avessero scalfiti con una spilla da balia».
Nella migliore tradizione basta un paludoso lembo di terra contesa a scatenare la guerra. «Lo sapevano tutti che un antenato di Bugler, certo D’Arby Bugler, uno scapestrato, aveva perso ogni diritto su quella parte della montagna, l’aveva perso con il padre del padre di Joseph, un inverno giocando a carte. Era nero su bianco e testimoniato e suo padre l’aveva perfino ripetuto sul letto di morte che D’Arby Bugler aveva ceduto quel corridoio di montagna e gli rimaneva soltanto il diritto in buona fede di andare giù e su». Chiamando in causa i «tutti» O’Brien dà voce alla vox populi che in certi contesti arretrati e tribali vale più di qualsiasi giurisprudenza liberale.
Ecco allora riemergere rivalità sopite, antagonismi personali e familiari mai venuti meno. Il tutto precipita quando Breege (lo so, in questo romanzo ci sono troppi nomi che iniziano con la B), la sorella minore di Brennan, s’invaghisce di Bugler. Lei è il personaggio a cui va la simpatia dell’autrice e del lettore. Maltrattata dal fratello, solo parzialmente accolta dal rivale, lei è l’eroina irlandese per antonomasia: docile, romantica, fatalista, e in quanto tale destinata a pagare un salatissimo prezzo.
È un gioco rischioso quello allestito in questo Feroce dicembre. Un affresco epico pretende dal romanziere parecchie rinunce dolorose: l’ironia, anzitutto; eppoi lo squisito armamentario di sfumature e sottigliezze che danno corpo alla narrativa moderna. O’Brien vola alto: la prosa è lutulenta, i contrasti vertiginosi, i dialoghi pieni di fervore. Il risultato è un libro violento che sacrifica la grazia all’implacabilità. È una scelta che O’Brien porta a conseguenze estreme.
Non amo dare voti ai libri, tanto più a quelli di una delle più eminenti scrittrici contemporanee. La merce più preziosa di cui dispongo è il gusto che mi guida al di là della mia stessa volontà. Diciamo allora che alla potenza di questo romanzo mi ostino a preferire la non meno feroce ironia dei racconti raccolti sotto il titolo di Oggetto d’amore. Ma ribadisco: è solo questione di gusto.