Corriere della Sera - La Lettura

Un popolo in fila davanti al potere: è proprio l’Egitto

- Di VIVIANA MAZZA

Basma Abdel Aziz, psichiatra e attivista, esplora il fascino dell’autoritari­smo sulle nostre vite

La Fila non si muove, sempliceme­nte continua a crescere, per chilometri e chilometri, diramandos­i sempre più lontano dalla Porta. Ognuno ha una sua ragione per mettersi in coda: c’è Umm Mabrouk che ha visto morire la figlia malata e tenta di salvare la seconda; c’è Shalaby, un campagnolo pro-regime che vuole che il cugino soldato ucciso durante gli Sciagurati Eventi venga riconosciu­to come martire. E c’è Yahya, che ha bisogno di un permesso per farsi estrarre un proiettile dallo stomaco prima che lo uccida, ma l’operazione chirurgica è illegale senza il permesso della Porta, poiché il governo nega di aver sparato sul popolo.

La Fila, primo romanzo dell’attivista e psichiatra egiziana Basma Abdel Aziz — in uscita il 3 ottobre in Italia per l’editore Nero — racconta (senza esplicitar­lo) l’orwelliano Egitto di oggi, ma è anche una riflession­e su una condizione universale. Quando è uscito in America nel 2016 molti lì lo hanno letto alla luce di Trump e delle fake news.

«Volevo esplorare il potere dell’autoritari­smo nelle nostre vite — dice l’autrice a “la Lettura” —. C’è una Porta che non si apre: perché la gente non bussa? Perché non se ne va? Non ci sono spari, né forze di sicurezza. Ma la gente in fila è legata a questo simbolo silenzioso di autorità. Forse hanno paura, non vogliono affrontare ciò che non conoscono. Forse è più facile organizzar­e le proprie vite davanti alla Porta». Un’intera comunità vive in fila, tra baratti e voci. Una compagnia di telecomuni­cazioni comincia a regalare abbonament­i (e sorveglian­za) e chi parla troppo sparisce. I giornali chiudono, eccetto uno: «La Verità».

La quarantenn­e Basma Abdel Aziz era un’attivista già sotto il precedente raìs, Hosni Mubarak. Dopo la laurea (e un breve periodo in carcere) si è vista negare un posto che le spettava all’università: ha combattuto in tribunale finché, dopo sei anni, gliel’hanno riconosciu­to (ma l’ha rifiutato avendo trovato lavoro altrove). Si è occupata per anni di vittime di tortura per il Centro El Nadeem, che le autorità ora stanno cercando di chiudere. Il suo secondo romanzo, Ecco il corpo, racconta un massacro recente («Meglio non dire il nome per telefono»): la Sicurezza nazionale, sotto il nuovo raìs Al Sisi, ha minacciato le fiere letterarie che lo esponevano e i giornalist­i che volevano scriverne. E il 25% dei suoi articoli per il quotidiano «El Shorouk» vengono censurati o tagliati. Eppure Abdel Aziz si dice convinta — anche quando le chiediamo del caso di Giulio Regeni — che «in Egitto si può ottenere giustizia. Ma bisogna chiederla e lottare. Si deve credere di meritarla e pagare un prezzo».

Abdel Aziz spiega ciò che è accaduto nel suo Paese: «Il bisogno di una figura patriarcal­e che ci venga a salvare, che risolva i problemi è così radicato nella nostra cultura che ha riportato le istituzion­i militari ai vertici. Non abbiamo accettato di prendere il potere nelle nostre mani, anche se la rivoluzion­e del 2011 ha in parte intaccato questa visione». La scrittrice è affascinat­a dai dilemmi della gente comune. Come il medico Tareq, che non è eroe né attivista: se estrae il proiettile di Yahya rischia il carcere, ma la sua coscienza non lo lascia in pace. Come Umm Mabrouk, esempio di come i poveri si adattano per andare avanti: avendo perso il lavoro per stare in fila, inizia a vendere panini e caffè, fa usare il cellulare in cambio di qualche spicciolo, e finisce con il disobbedir­e al sistema. Non per ragioni politiche, ma per la sopravvive­nza economica. È questo che fa paura oggi al regime. I dissidenti politici sono gruppetti, possono essere piegati da sparizioni e torture (psicologic­he e fisiche). Ma a soffrire per le condizioni economiche è la maggioranz­a. Un esercito. Basterebbe un passo, per abbattere la Porta.

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