Corriere della Sera - La Lettura
Costi quel che costi il giardino dev’essere coltivato
Memoir Andrea Pomella ingaggia un corpo a corpo con la depressione, farmaci inclusi. Poi...
La domanda di Andrea Pomella, che è la domanda poi di tanti, è semplice: «Perché mi sveglio sempre di cattivo umore?». La risposta non lo è affatto e non è sempre la stessa. Da secoli, vorremmo aggiungere, da quando ha attraversato la storia la caccia all’umor nero come sede della malinconia, tra le prime emozioni cui si è cercato di dare una ragione fisiologica e quella che più spesso ha trovato una terapia nella scrittura. Caduta la malinconia, si può restare schiacciati nel presente, cambiare grado, entrare nella depressione che non ha misure o tempo, se non quelle dell’individuo che ci convive.
Nel suo memoir in prima persona dal passo narrativo, L’uomo che trema, l’autore inizia da qui, dal momento in cui ogni appiglio sentimentale di fronte alle proprie crisi di panico, di malumore, di sensazione di insignificanza della vita svanisce e rimane solo «frastornante, immoto silenzio». A quel punto le risposte possono cambiare, dall’analisi all’autodistruzione, dalla meditazione allo sforzo fisico, ma quella che Pomella sceglie, affiancandole alla corsa e al suonare musica, dopo una crisi definitiva in un parcheggio, è la via della psichiatria fatta di equilibri tra medicinali dai nomi che «suonano come personaggi da fantasy medievale». Ricaptatori, ansiolitici, ipnotici, stabilizzatori umorali che come eroi molecolari lottano nel paziente cambiando la percezione di sé e dei propri comportamenti. Anche se i combattenti vanno talvolta sostituiti e ricalibrati, perché alcuni effetti collaterali possono essere fatali, come rischia di accadere in una notte di vacanza, a terapia già avviata, in cui la pulsione suicida dell’autore mira a un tubo di gomma da giardino con cui impiccarsi.
La storia della malattia e della cura si intrecciano con quelle della vita di ogni giorno a Roma, vicino alla moglie Grazia e al figlio Mario, al lavoro nella Scuola del cinema, e inevitabilmente con il passato che riaffiora. Dall’infanzia, all’autore era mancato il padre, separato dalla madre e poi allontanato dal figlio con rabbia, quand’era piccolo, per quasi quarant’anni. Di conseguenza: «Paura e frustrazione nei confronti del padre sono i due cardini su cui ho eretto la mia malattia», che ha comunque un incipit biologico.
È nella possibilità di un riavvicinamento a quello sconosciuto, per il desiderio che ha Mario alle elementari di conoscere il nonno, che procede la traccia più narrativa, mentre altre pagine riflettono sulla natura della propria malattia e altre ancora, quasi saggistiche, sui rapporti tra depressione e arti, toccando David Foster Wallace, Franz Kafka, Il male oscuro (1964) di Giuseppe Berto e il cantautore Elliott Smith.
Nei venti capitoli, divisi in tre parti e un epilogo, Pomella, che già abbiamo apprezzato per il suo romanzo di formazione Anni luce (Add, 2018), si dimostra scrittore sicuro e complesso nella costruzione del gesto narrativo per la varietà di intenzioni che sa amalgamare. Se il passo piano e nudo del racconto avvicina con intensità il lettore a un tema difficile come quello della depressione, a tenere insieme la stratificazione cui abbiamo accennato crediamo sia la capacità dell’autore nell’organizzazione simbolica del racconto, nonostante un rapporto non semplice con il linguaggio. Se a fatica riusciva a pronunciare il suo nome, il registro metaforico gli garantisce aree sicure: «La depressione è stata per tutta la vita la mia maschera, il travestimento che si è fuso con la sembianza di natura, come una vegetazione che ne ingloba un’altra, di una specie diversa, fino al punto da formare un groviglio indistinguibile».
Questa e altre immagini vegetali, che indicano nelle prime pagine il diffondersi della depressione, hanno poi diversi contrappunti nella narrazione: il giardino scatena i brutti ricordi dell’infanzia, quando era rimasto solo con la madre e la sorella e doveva curarsene perché il padre era sparito, ma segna anche il presente, con il verde della nuova casa da curare in uno sforzo vano, e ritorna sul finale in un dettaglio rivelatore che non sveliamo. Ecco allora che quel tubo di gomma rimasto sull’erba prende ancor più senso: questo è il nostro giardino e, per quanto sia difficile una vita, coltiviamolo.