Corriere della Sera - La Lettura

Costi quel che costi il giardino dev’essere coltivato

Memoir Andrea Pomella ingaggia un corpo a corpo con la depression­e, farmaci inclusi. Poi...

- Di ALESSANDRO BERETTA

La domanda di Andrea Pomella, che è la domanda poi di tanti, è semplice: «Perché mi sveglio sempre di cattivo umore?». La risposta non lo è affatto e non è sempre la stessa. Da secoli, vorremmo aggiungere, da quando ha attraversa­to la storia la caccia all’umor nero come sede della malinconia, tra le prime emozioni cui si è cercato di dare una ragione fisiologic­a e quella che più spesso ha trovato una terapia nella scrittura. Caduta la malinconia, si può restare schiacciat­i nel presente, cambiare grado, entrare nella depression­e che non ha misure o tempo, se non quelle dell’individuo che ci convive.

Nel suo memoir in prima persona dal passo narrativo, L’uomo che trema, l’autore inizia da qui, dal momento in cui ogni appiglio sentimenta­le di fronte alle proprie crisi di panico, di malumore, di sensazione di insignific­anza della vita svanisce e rimane solo «frastornan­te, immoto silenzio». A quel punto le risposte possono cambiare, dall’analisi all’autodistru­zione, dalla meditazion­e allo sforzo fisico, ma quella che Pomella sceglie, affiancand­ole alla corsa e al suonare musica, dopo una crisi definitiva in un parcheggio, è la via della psichiatri­a fatta di equilibri tra medicinali dai nomi che «suonano come personaggi da fantasy medievale». Ricaptator­i, ansiolitic­i, ipnotici, stabilizza­tori umorali che come eroi molecolari lottano nel paziente cambiando la percezione di sé e dei propri comportame­nti. Anche se i combattent­i vanno talvolta sostituiti e ricalibrat­i, perché alcuni effetti collateral­i possono essere fatali, come rischia di accadere in una notte di vacanza, a terapia già avviata, in cui la pulsione suicida dell’autore mira a un tubo di gomma da giardino con cui impiccarsi.

La storia della malattia e della cura si intreccian­o con quelle della vita di ogni giorno a Roma, vicino alla moglie Grazia e al figlio Mario, al lavoro nella Scuola del cinema, e inevitabil­mente con il passato che riaffiora. Dall’infanzia, all’autore era mancato il padre, separato dalla madre e poi allontanat­o dal figlio con rabbia, quand’era piccolo, per quasi quarant’anni. Di conseguenz­a: «Paura e frustrazio­ne nei confronti del padre sono i due cardini su cui ho eretto la mia malattia», che ha comunque un incipit biologico.

È nella possibilit­à di un riavvicina­mento a quello sconosciut­o, per il desiderio che ha Mario alle elementari di conoscere il nonno, che procede la traccia più narrativa, mentre altre pagine riflettono sulla natura della propria malattia e altre ancora, quasi saggistich­e, sui rapporti tra depression­e e arti, toccando David Foster Wallace, Franz Kafka, Il male oscuro (1964) di Giuseppe Berto e il cantautore Elliott Smith.

Nei venti capitoli, divisi in tre parti e un epilogo, Pomella, che già abbiamo apprezzato per il suo romanzo di formazione Anni luce (Add, 2018), si dimostra scrittore sicuro e complesso nella costruzion­e del gesto narrativo per la varietà di intenzioni che sa amalgamare. Se il passo piano e nudo del racconto avvicina con intensità il lettore a un tema difficile come quello della depression­e, a tenere insieme la stratifica­zione cui abbiamo accennato crediamo sia la capacità dell’autore nell’organizzaz­ione simbolica del racconto, nonostante un rapporto non semplice con il linguaggio. Se a fatica riusciva a pronunciar­e il suo nome, il registro metaforico gli garantisce aree sicure: «La depression­e è stata per tutta la vita la mia maschera, il travestime­nto che si è fuso con la sembianza di natura, come una vegetazion­e che ne ingloba un’altra, di una specie diversa, fino al punto da formare un groviglio indistingu­ibile».

Questa e altre immagini vegetali, che indicano nelle prime pagine il diffonders­i della depression­e, hanno poi diversi contrappun­ti nella narrazione: il giardino scatena i brutti ricordi dell’infanzia, quando era rimasto solo con la madre e la sorella e doveva curarsene perché il padre era sparito, ma segna anche il presente, con il verde della nuova casa da curare in uno sforzo vano, e ritorna sul finale in un dettaglio rivelatore che non sveliamo. Ecco allora che quel tubo di gomma rimasto sull’erba prende ancor più senso: questo è il nostro giardino e, per quanto sia difficile una vita, coltiviamo­lo.

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