Corriere della Sera - La Lettura
L’enigma dei tormenti è la scimmia che ti guarda
Dai tempi de Il profitto domestico, 1996, i toni bassi, la poesia sottovoce di Antonio Riccardi ci interrogano sul loro segreto. Si capiva fin da allora che in questo autore (nato a Parma e cresciuto a Sesto San Giovanni) sottovoce significa densità, aura intorno a una parola, a un accenno. La sua è infatti una poesia che si costruisce sulla calibratura, sulla sospensione. Dire e non dire, insomma. Non tanto e non solo per pudore. Ma prima di tutto per una sorta di calcolo. Si consideri quel lontano titolo: Il profitto domestico. Sembrerebbe adattarsi a un libro familiare di conti. In effetti la poesia di Riccardi è sempre in bilico, per ragioni di economia domestica ed esistenziale, tra ciò che si può dire e ciò che non si può. Anzi, parrebbe che tutto il non detto prema sul poco pronunciato, sul parsimonioso discorso che si fa, caricandolo di sottintesi, di risonanze. La poesia di Riccardi è in questa alberatura di accenni, in questo diramarsi di minime mitologie, nel peso specifico di ogni singola parola circondata dal vuoto pneumatico della sottrazione.
È quanto accade anche in Tormenti della cattività, appena pubblicato da Garzanti. Quei «tormenti» messi in fila (primo, secondo, terzo, quarto) richiamano irresistibilmente Paura prima e Paura seconda del maestro più riconosciuto da Riccardi, Vittorio Sereni (in Stella variabile; e già una Paura era negli Strumenti umani). Ma si potrebbe evocare anche, citando un autore invece lontano dalla personale genealogia del poeta, il «patema» di Luzi (penso a Segmenti del grande patema in Al fuoco della controversia). Patema e tormento sono come buchi neri che attirano la materia della vita, del tempo, delle occasioni, minacciando la trama della continuità, il bene possibile, il «profitto» di una storia.
Eppure la serie dei tormenti costituisce il libro. Perché proprio di un organismo si tratta, di un macrotesto calibrato e studiato a tavolino, con una struttura che ricorda certi libri di Caproni sorretti da una tramatura tenace, come Il franco cacciatore o Il conte di Kevenhüller. Basta aprire e ci si imbatte infatti in una sorta di prologo ragionato, detto Falso titolo, antiporta, dove la pianta del libro è sciorinata, quasi come una mappa in vista dell’attraversamento. Così ogni figura o cosa, animale o persona, ogni parola (puntuale, a tratti tecnica e anti-poetica) trae senso anche dalla collocazione nella fabbrica, nel progetto del libro (elemento portante in un poeta così poco incline all’illuminazione).
Il primo tormento ci porta alle Scene di un matrimonio; tutto è detto fino alla sincerità più dolorosa e insieme preservato, mineralizzato: si insegue «il minor danno, il beneficio certo» di una comunione, «e poi l’improvviso imbrunire/ della nostra piccola fortuna/ con l’avviso di una guerra/ sotto forma di rimprovero». Una glossa successiva, che ha proprio l’impronta di Caproni, dice: «Come la trappola, anche la poesia/ è un meccanismo fatale». Poesia come tagliola, necessità di dire proprio ciò che deve essere detto (esso solo e nient’altro). Non importano perciò i veri e propri fatti, ma piuttosto il significato di una parabola, la sorte di un progetto di bene, che rivela a un certo punto anche un tarlo tormentoso, quello che rode la stessa parola, il disegno, la compiutezza di un quadro: «E noi come faremo invece/ se fuori frana il nostro mondo/ per un accidente fortunoso/ a coltivare la nostra quiete / come un lauro sempreverde?».
È per sottrazione che al poeta e al lettore restano tra le mani indizi, tracce, segni minimi da decifrare, in una permanente crittografia. Si prendano i fagiani che attraversano il territorio dei morti di famiglia, tra cui il più caro: il padre del poeta ( Secondo tormento. Zooforo appenninico). Come leggerli? Come far tesoro della loro presenza? Magari prolungandone l’eco nel testo poetico, suggerisce Riccardi: (...) «ho visto tre giovani fagiani/ cercare l’ombra tra le tombe». Gli animali che occhieggiano dal cimitero di Cattabiano, luogo domestico e d’origine dei Riccardi nell’Appennino emiliano, sono figure araldiche e imprendibili, misteriche eppure naturali. Il senso di una storia familiare che sa di romanzo frantumato, a lacerti, rimanda con forza a un altro dei maestri in ombra, Bertolucci, eluso nell’atto stesso di essere evocato. Così della storia degli avi, della Grande
Guerra da essi combattuta ( Quarto tor
mento. Madrigale della battaglia) restano tessere spaiate, frammenti. Il senso della vicenda familiare sembra ripetersi e insieme perdersi nei nuovi travagli del poeta, smarrito il valore del paradigma acquisito. E così Riccardi, citando direttamente il Sereni di Altro posto di lavoro e dedicando la serie ( Le strenne si vendo
no col sole) ad Antonio Franchini, già suo collega in Mondadori, accenna ellitticamente alla fine del suo rapporto professionale con la casa editrice di Segrate, di cui è stato a lungo dirigente: «Ma noi che non saremo mai sereni/ avremo almeno saldato il conto/ andando in pari senza artifici».
Tagliente eppure stringato, il poeta non modula un lamento ma, si direbbe, una protesta. In mezzo c’è il pannello che porta l’intitolazione Terzo tormento. Pan
Am, dedicato a un altro amore, che è stato insieme «Felicità e tortura». Una figura di donna sinuosa, languida, appare e spare come un idolo: tutto quanto regala, anche sottrae, trasformandolo in dolore. L’«io» è in questo rapporto come visto da fuori, giudicato e soppesato nei suoi tratti: il suo destino messo alla prova da uno sguardo altro («“non sei fatto per le cose leggere”»). Restano l’Ultimo tormento.
Lachrimae — in cui tornano le ombre di famiglia, la stirpe che il poeta ha alle spalle e dentro di sé — e le Prove per un
cenotafio, antiretorico e solo in parte ironico tentativo di epitaffio con variazioni.
Poi c’è Enigma alla fine. Un solo testo (intitolato Rosso) di un unico verso sta sotto tale dicitura e recita: «Tra gli altri uno è la sua scimmia». Di che cosa ci sta parlando il poeta? Per intuirlo occorre tornare all’iniziale Falso titolo, antipor
ta, dove in chiusa si legge: «E infine, l’enigma dietro il deposto/ tra la folla disperata del compianto:/ perché Rosso amasse tanto / un semplice primate». Ecco la chiave: si allude a Rosso Fiorentino, alla Deposizione di Sansepolcro, con la figura dal volto scimmiesco che guarda lo spettatore (Vasari dice che Rosso possedeva proprio una scimmia). Ciò significa forse che i tormenti del microcosmo (Cattabiano, gli amori, la storia di famiglia) si inseriscono, per virtù di struttura, nel dramma universale? Forse. Tutto è detto e non detto, appena alluso, cifrato. Il lettore deve smontare e rimontare, trovare indizi, collegare fili, come in un’inchiesta sul trapassare e l’essere stati, sul senso o sul non-senso, che riguarda lui non meno che il poeta.