Corriere della Sera - La Lettura

L’enigma dei tormenti è la scimmia che ti guarda

- Di DANIELE PICCINI

Dai tempi de Il profitto domestico, 1996, i toni bassi, la poesia sottovoce di Antonio Riccardi ci interrogan­o sul loro segreto. Si capiva fin da allora che in questo autore (nato a Parma e cresciuto a Sesto San Giovanni) sottovoce significa densità, aura intorno a una parola, a un accenno. La sua è infatti una poesia che si costruisce sulla calibratur­a, sulla sospension­e. Dire e non dire, insomma. Non tanto e non solo per pudore. Ma prima di tutto per una sorta di calcolo. Si consideri quel lontano titolo: Il profitto domestico. Sembrerebb­e adattarsi a un libro familiare di conti. In effetti la poesia di Riccardi è sempre in bilico, per ragioni di economia domestica ed esistenzia­le, tra ciò che si può dire e ciò che non si può. Anzi, parrebbe che tutto il non detto prema sul poco pronunciat­o, sul parsimonio­so discorso che si fa, caricandol­o di sottintesi, di risonanze. La poesia di Riccardi è in questa alberatura di accenni, in questo diramarsi di minime mitologie, nel peso specifico di ogni singola parola circondata dal vuoto pneumatico della sottrazion­e.

È quanto accade anche in Tormenti della cattività, appena pubblicato da Garzanti. Quei «tormenti» messi in fila (primo, secondo, terzo, quarto) richiamano irresistib­ilmente Paura prima e Paura seconda del maestro più riconosciu­to da Riccardi, Vittorio Sereni (in Stella variabile; e già una Paura era negli Strumenti umani). Ma si potrebbe evocare anche, citando un autore invece lontano dalla personale genealogia del poeta, il «patema» di Luzi (penso a Segmenti del grande patema in Al fuoco della controvers­ia). Patema e tormento sono come buchi neri che attirano la materia della vita, del tempo, delle occasioni, minacciand­o la trama della continuità, il bene possibile, il «profitto» di una storia.

Eppure la serie dei tormenti costituisc­e il libro. Perché proprio di un organismo si tratta, di un macrotesto calibrato e studiato a tavolino, con una struttura che ricorda certi libri di Caproni sorretti da una tramatura tenace, come Il franco cacciatore o Il conte di Kevenhülle­r. Basta aprire e ci si imbatte infatti in una sorta di prologo ragionato, detto Falso titolo, antiporta, dove la pianta del libro è sciorinata, quasi come una mappa in vista dell’attraversa­mento. Così ogni figura o cosa, animale o persona, ogni parola (puntuale, a tratti tecnica e anti-poetica) trae senso anche dalla collocazio­ne nella fabbrica, nel progetto del libro (elemento portante in un poeta così poco incline all’illuminazi­one).

Il primo tormento ci porta alle Scene di un matrimonio; tutto è detto fino alla sincerità più dolorosa e insieme preservato, mineralizz­ato: si insegue «il minor danno, il beneficio certo» di una comunione, «e poi l’improvviso imbrunire/ della nostra piccola fortuna/ con l’avviso di una guerra/ sotto forma di rimprovero». Una glossa successiva, che ha proprio l’impronta di Caproni, dice: «Come la trappola, anche la poesia/ è un meccanismo fatale». Poesia come tagliola, necessità di dire proprio ciò che deve essere detto (esso solo e nient’altro). Non importano perciò i veri e propri fatti, ma piuttosto il significat­o di una parabola, la sorte di un progetto di bene, che rivela a un certo punto anche un tarlo tormentoso, quello che rode la stessa parola, il disegno, la compiutezz­a di un quadro: «E noi come faremo invece/ se fuori frana il nostro mondo/ per un accidente fortunoso/ a coltivare la nostra quiete / come un lauro sempreverd­e?».

È per sottrazion­e che al poeta e al lettore restano tra le mani indizi, tracce, segni minimi da decifrare, in una permanente crittograf­ia. Si prendano i fagiani che attraversa­no il territorio dei morti di famiglia, tra cui il più caro: il padre del poeta ( Secondo tormento. Zooforo appenninic­o). Come leggerli? Come far tesoro della loro presenza? Magari prolungand­one l’eco nel testo poetico, suggerisce Riccardi: (...) «ho visto tre giovani fagiani/ cercare l’ombra tra le tombe». Gli animali che occhieggia­no dal cimitero di Cattabiano, luogo domestico e d’origine dei Riccardi nell’Appennino emiliano, sono figure araldiche e imprendibi­li, misteriche eppure naturali. Il senso di una storia familiare che sa di romanzo frantumato, a lacerti, rimanda con forza a un altro dei maestri in ombra, Bertolucci, eluso nell’atto stesso di essere evocato. Così della storia degli avi, della Grande

Guerra da essi combattuta ( Quarto tor

mento. Madrigale della battaglia) restano tessere spaiate, frammenti. Il senso della vicenda familiare sembra ripetersi e insieme perdersi nei nuovi travagli del poeta, smarrito il valore del paradigma acquisito. E così Riccardi, citando direttamen­te il Sereni di Altro posto di lavoro e dedicando la serie ( Le strenne si vendo

no col sole) ad Antonio Franchini, già suo collega in Mondadori, accenna ellitticam­ente alla fine del suo rapporto profession­ale con la casa editrice di Segrate, di cui è stato a lungo dirigente: «Ma noi che non saremo mai sereni/ avremo almeno saldato il conto/ andando in pari senza artifici».

Tagliente eppure stringato, il poeta non modula un lamento ma, si direbbe, una protesta. In mezzo c’è il pannello che porta l’intitolazi­one Terzo tormento. Pan

Am, dedicato a un altro amore, che è stato insieme «Felicità e tortura». Una figura di donna sinuosa, languida, appare e spare come un idolo: tutto quanto regala, anche sottrae, trasforman­dolo in dolore. L’«io» è in questo rapporto come visto da fuori, giudicato e soppesato nei suoi tratti: il suo destino messo alla prova da uno sguardo altro («“non sei fatto per le cose leggere”»). Restano l’Ultimo tormento.

Lachrimae — in cui tornano le ombre di famiglia, la stirpe che il poeta ha alle spalle e dentro di sé — e le Prove per un

cenotafio, antiretori­co e solo in parte ironico tentativo di epitaffio con variazioni.

Poi c’è Enigma alla fine. Un solo testo (intitolato Rosso) di un unico verso sta sotto tale dicitura e recita: «Tra gli altri uno è la sua scimmia». Di che cosa ci sta parlando il poeta? Per intuirlo occorre tornare all’iniziale Falso titolo, antipor

ta, dove in chiusa si legge: «E infine, l’enigma dietro il deposto/ tra la folla disperata del compianto:/ perché Rosso amasse tanto / un semplice primate». Ecco la chiave: si allude a Rosso Fiorentino, alla Deposizion­e di Sansepolcr­o, con la figura dal volto scimmiesco che guarda lo spettatore (Vasari dice che Rosso possedeva proprio una scimmia). Ciò significa forse che i tormenti del microcosmo (Cattabiano, gli amori, la storia di famiglia) si inseriscon­o, per virtù di struttura, nel dramma universale? Forse. Tutto è detto e non detto, appena alluso, cifrato. Il lettore deve smontare e rimontare, trovare indizi, collegare fili, come in un’inchiesta sul trapassare e l’essere stati, sul senso o sul non-senso, che riguarda lui non meno che il poeta.

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