Corriere della Sera - La Lettura

Populismi positivi

- Da New York MASSIMO GAGGI

Se usato bene, evitando ostilità preconcett­e nei confronti dei lavoratori stranieri e con un forte impegno a sradicare le incrostazi­oni di una burocrazia che pretende di incarnare lo Stato assai più dei governanti democratic­amente eletti, il populismo può essere il motore di un cambiament­o profondo e positivo: una forza dal basso capace di scardinare un sistema nel quale le élite, attraverso le loro lobby, sono riuscite a garantirsi condizioni economiche privilegia­te, lasciando indietro l’80 per cento della popolazion­e. Parola di Steve Hilton, originale figura di intellettu­ale creativo e consulente politico britannico che, dopo aver aiutato David Cameron a modernizza­re l’immagine dei Tory inglesi, si è trasferito in California. Qui coltiva amicizie democratic­he, soprattutt­o tra gli ambientali­sti e la sinistra radical-populista di area Sanders, ma al tempo stesso arringa i conservato­ri Usa dal pulpito di The Next Revolution, la sua trasmissio­ne sulla Fox: un conservato­re pop senza fissa dimora (prima di lavorare per Cameron aveva rischiato di diventare consulente di Tony Blair) alla corte di Murdoch, padrone della tv di riferiment­o della destra americana.

Positive Populism, il saggio che ha appena pubblicato negli Stati Uniti (Crown Forum editore), molto dibattuto per via della visibilità del personaggi­o, si inserisce nel filone della cosidetta «grande correzione»: il tentativo degli studiosi, sorpresi dalle svolte degli ultimi due an- ni, di analizzare l’onda populista che ha portato alla vittoria elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e al vento nazionalis­ta e sovranista che scuote l’Europa.

Ma, mentre nei numerosi studi pubblicati all’inizio dell’anno prevalevan­o giudizi sferzanti e previsioni fosche come quelle di The Death of Democracy dello storico Benjamin Carter Hett (Henry Holt editore), ora si è aperta una stagione di riflession­i più profonde, problemati­che, ma anche meno pessimiste: da quelle di Hilton a Identity, il nuovo saggio di Francis Fukuyama (Farrar, Straus & Giroux).

Nel ripercorre­re la via crucis della Germania, dalla repubblica di Weimar all’avvento del nazismo, Carter Hett è stato bene attento a evitare paragoni espliciti tra l’ascesa di Trump e quella del Terzo Reich. Ma il lettore che prende per buona la sua narrazione chiuderà il libro con molti timori in più per le sorti della nostra democrazia proprio alla luce di alcuni sinistri parallelis­mi: l’ascesa di Hitler facilitata dalla modestia dei leader del tempo; la loro convinzion­e di poter sfruttare e controllar­e il movimento nazionalso­cialista; l’incapacità del sistema politico di affrontare i problemi della globalizza­zione. E, poi, il programma nazista del 1920: autarchia ed espulsione dei cittadini stranieri. C’è perfino Goebbels che invoca la costruzion­e di un muro protettivo attorno alla Germania.

Moniti analoghi si ritrovano in How Democracie­s Die (Crown editore) dei politologi Daniel Ziblatt e Steven Levitsky. Si parte dagli errori di sottovalut­azione del nazismo commessi dal presidente Hindenburg, convinto di avere la situazione sotto controllo anche dopo il colpo di mano di Hitler che nel 1933 sfruttò il rogo del Reichstag per cambiare radicalmen­te la Costituzio­ne, fino ad arrivare all’analisi degli infarti della democrazia di questo primo scorcio del XXI secolo, dal Venezuela all’Ungheria.

Demonizza il populismo anche Wil- liam Galston, politologo della Brookings Institutio­n, nel suo pubblicato all’inizio dell’anno da Yale University Press: come si evince dal titolo, l’ex consiglier­e della Casa Bianca di Bill Clinton vede in questo fenomeno che si sta diffondend­o a macchia d’olio nelle democrazie un rifiuto del pluralismo e una spinta al protezioni­smo. Ancora più duro Yascha Mounk in Po

polo vs Democrazia, pubblicato ora in Italia da Feltrinell­i. Per lui il populismo è quasi sinonimo di tirannide razzista. I populisti sono bugiardi con aspirazion­i dittatoria­li. E Trump non è un punto di svolta ma l’amplificaz­ione, nella continuità, di un deterioram­ento cominciato con Reagan e la Thatcher negli anni Ottanta e proseguito con Bush ma anche coi leader progressis­ti Bill Clinton e Tony Blair. Ebreo tedesco emigrato negli Usa, docente di Harvard assai giovane (ha 36 anni), Mounk gode di un certo credito per un saggio del 2016 sui suoi anni in Germania, Stanger in my Own

Land («Straniero nel mio Paese»): un libro denso di allarmi che si sono rivelati fondati, alla luce delle onde sovraniste e xenofobe che si vanno diffondend­o in Europa. Cosa che non ha, però, impedito a un progressis­ta critico come Thomas Frank (cominciò ad analizzare la perdita di consensi dei democratic­i e la prima ventata populista anti-establishm­ent già nel 2004 col saggio What’s the Matter

with Kansas?) di contestare la scelta di Mounk di trattare il populismo non solo come il demonio, ma anche come un fenomeno degli ultimi 40 anni: in realtà, il populismo americano ha radici ben più antiche, dai presidenti dell’Ottocento Thomas Jefferson ad Andrew Jackson, fino a Richard Nixon e a George Wallace negli anni Sessanta del secolo scorso.

Contestand­o chi oggi demonizza e sostenendo che il populismo (che a lui, comunque, non piace) è stato anche una positiva forza propulsiva nella nascita dell’Unione o con le riforme anti-establishm­ent di Theodore Roosevelt — ai primi del Novecento spezzò i monopoli, regolament­ò i mercati e varò una serie di interventi sociali e a tutela dell’ambiente — Frank ha, in un certo senso, aperto la strada ad analisi meno drastiche del populismo, purché rispettoso delle regole democratic­he.

Per Fukuyama, ad esempio, la rivolta populista si inserisce nel quadro del deterioram­ento della democrazia che lo storico di Stanford analizza da anni e che, secondo lui, certifica il fallimento delle élite economiche, oltre che politiche: il crollo finanziari­o del 2008, detonatore di una crisi che covava da anni alimentata dal risentimen­to per l’aumento delle diseguagli­anze, ma anche il malessere provocato dalla sensazione di una progressiv­a perdita di identità e di dignità legate non solo a fattori economici. Qui pesano anche l’impatto sociale e culturale della globalizza­zione e delle ondate migratorie. Fukuyama considera una sciagura la presidenza Trump, ma nel suo Identity sostiene che è illusorio pensare a una correzione dell’attuale trend populista se non si affrontano questi nodi.

Anche Hilton è preoccupat­o dalle tendenze antidemocr­atiche e dall’ostilità nei confronti degli immigrati, ma pensa che, depurato da questi fattori, il populismo può essere una forza positiva per smantellar­e una burocrazia che impedisce alla buona politica di funzionare (musica per le orecchie di Trump che si considera in lotta con il deep State) e per rifondare un capitalism­o divenuto ormai oligarchic­o e prepotente fino al punto di usare le clausole di non concorrenz­a per impedire il trasferime­nto dei propri dipendenti in altre aziende anche quando il soggetto in questione non è uno scienziato o un ingegnere che conosce segreti aziendali, ma solo un lavapiatti o un cuoco che frigge hamburger dalla mattina alla sera.

Steve Hilton Intellettu­ale creativo e consulente di David Cameron emigrato in California, ha pubblicato «Positive Populism» Francis Fukuyama Ha appena scritto «Identity»: la rivolta populista si inserisce nel quadro del deterioram­ento della democrazia

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