Corriere della Sera - La Lettura
Gio Ponti & Luigi Ghirri Le convergenze parallele
Parigi dedica una grande mostra all’architetto e designer di cui nel 2019 ricorrerà il quarantennale della morte. Madrid rende omaggio al fotografo dall’approccio e dai risultati rivoluzionari. Una coincidenza? Solo una coincidenza? Sì e no. Perché i due artisti, pur agendo in ambiti diversi, rivelano assonanze, come nella coscienza delle radici e del patrimonio del nostro Paese Necessità condivisa Per entrambi l’Italia è come un archivio di archetipi e motivi da saccheggiare e reinventare
A fianco: Luigi Ghirri,
Salisburgo (1977, stampa cromogenica), courtesy Matthew Marks Gallery © Eredi di Luigi Ghirri. Nella pagina accanto, in alto da sinistra: Gio Ponti, La passeggiata archeologica
(1925-1927, urna in porcellana Richard Ginori, smalti e oro a punta d’argento); sedia
Superleggera per Cassina (1957, legno di frassino e canna indiana); sotto: Luigi Ghirri, Modena (1972, stampa cromogenica), courtesy Matthew Marks Gallery © Eredi di Luigi Ghirri
Una felice coincidenza. Dal 19 ottobre il Musée des Arts Décoratifs di Parigi ospita una grande retrospettiva dedicata all’opera di Gio Ponti, in cui verranno presentati oggetti di design, elementi architettonici, quadri, disegni, progetti, libri, riviste, biglietti privati. Qualche giorno prima (dal 26 settembre) il Reina Sofía di Madrid accoglie un’ampia esposizione dedicata a Luigi Ghirri, che si concentrerà soprattutto sui lavori degli anni Settanta: quando l’artista, in dialogo con le poetiche pop e concettuali, si interroga in maniera radicale sugli strumenti e sui processi propri del «fare fotografia»; affronta la sfida del racconto delle periferie; avvia un lungo viaggio in Italia; cataloga tracce dell’ovvio; si lascia sedurre dalle architetture popolari; e, insieme, non smette di contemplare il cielo.
Dunque, solo una felice coincidenza ha portato due tra i più importanti musei europei a celebrare in contemporanea Ponti e Ghirri? Forse sì. Eppure, si tratta di una coincidenza che ci porta a riflettere non solo sulle tante differenze culturali e stilistiche tra queste due figure ma anche sulle segrete affinità e sulle implicite consonanze che le legano. Pur da un’ineliminabile distanza, le loro intenzioni sembrano risuonare insieme. Siamo dinanzi a due personalità totali, che tendono a spingersi oltre i confini delle loro pratiche professionali. Ponti: architetto, designer, pittore, critico (sul «Corriere della Sera»), fondatore di riviste («Domus»). Ghirri: fotografo, teorico ( Lezioni di fotografia), curatore di iniziative e di mostre diventate leggendarie ( Viaggio in Italia, Esplorazioni della Via Emilia). Ponti e Ghirri condividono la necessità di dar vita a esperienze d’avanguardia fortemente radicate nel tessuto culturale, visivo e antropologico italiano: l’Italia, per loro, è come un archivio di archetipi e motivi da saccheggiare e reinventare.
Aedo di una sorta di «pensiero mediterraneo», Ponti tende a guardare dietro di sé. Come emerge dalle ceramiche create per la Richard Ginori negli anni Venti: piccole sculture da tavolo, piatti e vasi, innovativi e, al tempo stesso, rispettosi dei valori classici, realizzati con le più avanzate tecniche ma ispirati alla nostra tradizione artigianale, caratterizzati da richiami alle forme delle antiche medaglie, delle urne e delle statue, popolati di sinuose silhouette, tra basiliche, colonnati e pergole. Questa nostalgia attiva si può ritrovare anche
nei mobili, nei vetri e nelle architetture (come Casa in via Randaccio, a Milano), che rivelano il bisogno di riscoprire il senso della misura di matrice umanistica, sulle orme di fascinazioni palladiane e di echi neoclassici, in sintonia con il clima del ritorno all’ordine invocato dal gruppo del Novecento. Attingendo a motivi lontani, Ponti riesce così a farsi voce della
«Milanon» di cui ha parlato lo scrittore Emilio De Marchi: ne distilla gli umori e gli slanci; ne esprime l’impaziente bisogno di farsi capitale della civiltà moderna.
L’Italia di cui si fa cantore Ghirri è diversa. È un’Italia marginale, laterale, meno nota, fuori dalle piste del turismo convenzionale, involontariamente lirica, stupita. Nomade che ama smarrirsi tra sentieri nascosti, Ghirri attraversa il paesaggio italiano, indugiando su scorci, su dettagli, su situazioni minime, su oggetti banali che riescono a diventare «spazi inattesi» saturi di memorie e di simboli. Le sue foto, ha sottolineato Ermanno Cavazzoni, ricordano da vicino «un’usanza diffusa nel teatro barocco, dove c’erano degli spettatori seduti in scena che osservavano lo svolgersi del dramma, e così il mondo rappresentato diventa un mondo osservato»; e l’atto di osservazione si fa «lavoro di lettura». I primi capitoli di questa inquieta ricerca verranno radunati in una personale, Vera Fotografia, promossa, al Csac di Parma, da uno dei suoi più attenti interpreti, Arturo Carlo Quintavalle.
Ma, forse, Ponti e Ghirri hanno in comune soprattutto altro. Un modo di guardare. Si confronti un vaso in porcellana per la Richard Ginori, Prospettica (1925) con il progetto Ita
lia Ailati (1971-1979). Da un lato, una fitta sequenza di piccole celle sapientemente decorate, occupate da forme primarie: un gioco di ripetizioni differenti, con evidenti rimandi alle prospettive rinascimentali e ad alcune visioni del Carrà novecentista e di protagonisti del Realismo Magico come Casorati. Dall’altro lato, le tappe di un lungo tour emiliano, denso di assonanze con la pittura di Hopper e di Morandi: luoghi banali, anonimi, senz’anima, collocati dentro pause prolungate, scolpiti da luci che definiscono ogni icona con esattezza.
Ponti e Ghirri — come ci dicono questi esempi — muovono sempre dal bisogno di aderire al reale (e alla storia), per poi distanziarsene. Sorretti da struggenti melanconie, si pongono in ascolto delle voci del mondo, per isolarsi da quei rumori di fondo. Mettono in mostra scenari disabitati, non contaminati da presenze umane. Vogliono cogliere il visibile quando il visibile stesso si fa altro da sé. Lo inquadrano, lo impaginano, lo incorniciano. Lo sospendono in un’attesa senza fine. Lo teatralizzano attraverso una sintassi di ascisse e di ordinate, di verticali e di diagonali. Infine, lo reincantano. Zona insondabile.
La volontà di prendere il reale in contropiede nasconde la vera matrice comune delle diverse proposte poetiche dell’architetto milanese e del fotografo emiliano: la Metafisica. De Chirico, Carrà, de Pisis, Savinio e Morandi hanno insegnato che metafisica non vuol dire andare al di là delle cose, ma significa guardare il vero in maniera differente, al di fuori della cronaca, fino a renderlo spaesante. Scorgere il mistero che è dinanzi ai nostri occhi. Scoprire l’enigmaticità del presente, rivelandone il lato notturno, straniante. Pur seguendo traiettorie non contigue, da queste intuizioni muovono Ponti e Ghirri. Che, in una delle sue ultime interviste, aveva detto: «Uno degli elementi che mi affascinava nelle ricerche concettuali era l’irruzione della possibilità di una sorpresa all’interno del quotidiano (…). Credo di aver appreso dall’arte concettuale la possibilità di partire dalle cose più semplici, dall’ovvio, per vederle sotto un’altra luce».