Corriere della Sera - La Lettura
Fratelli di jazz
C’è un vero romanzo nella storia dei fratelli Pieranunzi, entrambi eccellenze della musica italiana: Enrico, 68 anni, fantastico pianista jazz; Gabriele, 49 anni, sublime violinista classico. Un romanzo che racconta l’orgoglio di chi da una modesta origine sa raggiungere la chiara fama; ma che descrive anche due personalità separate da vent’anni e dunque cresciute in momenti diversi e altrettanto importanti della storia italiana, Enrico nella Roma del dopoguerra, Gabriele in quella post-Sessantotto.
Come vedremo, le loro vicende musicali si sono subito incrociate fra le mura domestiche, ma poi hanno conosciuto un lungo periodo di latenza finché nel 2009 i due si sono nuovamente ritrovati a suonare assieme, affiancati dal clarinettista classico Alessandro Carbonare: un’esperienza ripetuta più volte, fino a interpretare Stravinsky e Milhaud su un disco del 2012 per l’etichetta Concerto. Ora il trio si è costituito su nuove basi, comprendendo un clarinettista a proprio agio tanto nel jazz quanto nella classica, Gabriele Mirabassi; ne è nato l’album Pieranunzi-Mirabassi-Pieranunzi Play Gershwin, in uscita il 23 novembre per la Cam. Un lavoro per il quale il pianista ha realizzato complesse trascrizioni di alcuni tra i maggiori capolavori dell’autore statunitense, la
Rhapsody In Blue, An American In Paris e i quattro Preludi (alcuni dei quali praticamente sconosciuti), ai quali si aggiunge una composizione dello stesso Enrico basata su un blues gershwiniano: Variazioni su un tema di
George Gershwin.
Com’è entrata la musica nella vostra vita?
ENRICO — Non è entrata, c’è sempre stata. Nostro padre faceva il caporchestra nei night, è stato il miglior chitarrista nella Capitale a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta. Adorava tutta la musica e ha voluto passare questo amore ai figli. Prima ci ha provato con nostra sorella, che ha due anni più di me, cioè poco più di settanta, le ha messo davanti un’arpa ma lei si è rifiutata. Con me gli è andata meglio. Per lui il pianoforte era lo strumento completo, così me ne ha fatto trovare uno in casa, io non sapevo neppure che cosa fosse. Avevo sei anni e mi sono ritrovato, per così dire, il kit completo: cassone di legno in sala e insegnante a cinque minuti da casa. Per sua fortuna mi sono appassionato subito.
GABRIELE — Vent’anni dopo, a me è toccato il violino. Avevo sei, sette anni. Credo che nella scelta dello strumento ci fosse anche un ragionamento pratico, del tipo «i violinisti in un’orchestra servono sempre». Ragionamento che condividevo, fin da quell’età pensavo che da grande o avrei fatto il musicista oppure avrei avuto un bar o un’edicola. E anche se devo riconoscere che sullo strumento ho sempre avuto una bella facilità, in effetti al bar ogni tanto penso ancora. Noi musicisti siamo sempre chiusi in una stanza a suonare le scale da soli, mentre a me piace la dimensione collettiva, lo scambio di chiacchiere; mi vedrei bene a gestire un locale nel quale la gente va e viene…
ENRICO — Forse non te l’ho mai detto ma il violino lo
Dialoghi I Pieranunzi hanno cominciato a suonare da piccoli. Enrico il pianoforte, amando improvvisare. Gabriele il violino classico, fedele allo spartito. Ora si ritrovano con Gershwin
Enrico: «Nella classica ci si può perdere. Il jazz mi ha salvato, il suo rapporto col corpo è imprescindibile» Gabriele: «Siamo molto diversi. A lui invidio la capacità di ribaltare una serata che parte storta»
scelsi io, non papà. Un giorno venne da me e mi disse: «Riche’, che famo con Gabriele?». All’inizio non capii che cosa intendesse dire, ma lui aveva già notato la tua grande musicalità. Due pianisti in casa erano da escludere… io avevo osservato che quando passavi di fianco alla chitarra di papà toccavi sempre le corde, ti piaceva farle vibrare e stare ad ascoltarle. Così proposi uno strumento a corde. E avevo ragione: non ti ho mai sentito stonare, neppure il primo giorno. Possiamo dire che la musicalità era forte in entrambi.
ENRICO — Il giorno in cui arrivò il pianoforte, mio padre mi disse: «Fa’ come me» e cominciò a suonare. Io gli andai dietro. Fin dall’inizio imparai a leggere la musica e contemporaneamente a improvvisare, credo di essere un raro caso di musicista davvero «anfibio» in questo senso. Ricordo che papà m’insegnò subito due cose,
Blue Moon e il giro di blues. Ma intanto studiavo i classici, diedi l’esame di solfeggio a dieci anni e il quinto anno di pianoforte a dodici. Gabriele poi mi batté…
GABRIELE — Io solfeggio l’ho dato a nove anni, ma avevo un vantaggio: me lo insegnavi tu. Fino ai diciott’anni sono stato affidato a te, mi hai sempre accompagnato al pianoforte, anche ai primi concorsi. A ripensarci, bisogna riconoscere che è stato un rapporto piuttosto ossessivo. Naturalmente, vista la differenza di età, non eri precisamente il tipo classico del fratello, ricordo che quando venivi a prendermi a scuola i miei compagni ti prendevamo per mio padre… Mi pare logico che poi per tanti anni abbiamo evitato di suonare insieme.
ENRICO — Ti aiutavo negli anni in cui mi affermavo come jazzista, devo riconoscere che lavorare al tuo fianco fu molto utile anche per me: in quel modo dovetti continuare ad approfondire il mondo dei classici, cercavo le partiture da farti suonare, oltretutto tu le «digerivi» con una rapidità incredibile. Enrico scelse il jazz, Gabriele la classica. Due mondi incompatibili? GABRIELE — Assolutamente sì, purtroppo. In tutta la vita non ho mai improvvisato una nota, non ho mai capito come funzionasse. Certo dipende anche dallo strumento, di violinisti jazz ce ne sono pochi... Però devo fare una confessione: in famiglia ho sempre finto di non ascoltare il jazz, ma in effetti lo facevo. E mi piaceva.
ENRICO — Per me sono mondi paralleli. Ho insegnato pianoforte in conservatorio per 25 anni, fino al 1998. Del resto nel disco che sta per uscire suoniamo Gershwin e in tutto l’album c’è solo un mio minuscolo momento di improvvisazione, meno di un minuto; il resto è tutto scritto. Devo però constatare un fatto importante, cui accennava anche Gabriele. Per me, in gioventù, la musica classica è stata una campana di vetro. La classica è molto autoreferenziale, ci si può perdere; il jazz è stato la mia salvezza psicologica. E anche fisica: perché il suo rapporto con il corpo è imprescindibile e molto sano. Nella musica classica prevale l’occhio, si guarda la parte, si guarda il direttore... Nel jazz c’è un legame fra orecchio, dita e soprattutto pancia.
GABRIELE — Posso anche concordare, ma vorrei spezzare una lancia in favore della musica che suono. A me piace da pazzi essere un esecutore classico, dipendere da ciò che hanno scritto i grandi autori. Suonare questa musica è cercare continuamente l’interpretazione più autentica. Adoro anche gli aspetti più tecnici, per esempio per me esplorare le diverse diteggiature con cui suonare un brano è come risolvere un cruciverba. Avete ripreso a suonare assieme quasi dieci anni fa. Com’è la nuova interazione tra fratelli? GABRIELE — Siamo molto diversi, umanamente e musicalmente. Chi ci conosce lo sa ma spesso si fa idee differenti rispetto a quella che credo sia la nostra vera natura. Per esempio, io ritengo di essere molto meno competitivo di quel che sembra… Però abbiamo un importante elemento in comune: la serietà sul lavoro, una dote che oggi è meno diffusa di quanto dovrebbe.
ENRICO — Questa collaborazione mi permette di approfondire un elemento musicale che mi interessa molto, la trascrizione. È un rapporto con l’autore straordinariamente intimo, bisogna conservare la sua anima nei nuovi impasti sonori che crei. Nel trio poi c’è Gabriele Mirabassi, che come me frequenta anche il jazz; dunque nascono intese di carattere diverso, lui credo si diverta di più con le mie soluzioni di scrittura, mentre mio fratello trova delle finezze di suono uniche. C’è un difetto che riscontrate in vostro fratello? E qualcosa che invece gli invidiate? GABRIELE — È difficile fare confronti, per l’assoluta diversità fra noi due di cui ho parlato. È un difetto essere completamente diverso da me? Non credo. A Enrico invidio invece la capacità, tipica del jazzista, di ribaltare totalmente una serata che parte storta. Io, quando mi capita, posso solo affidarmi alla professionalità.
ENRICO — Il difetto di Gabriele può essere quello tipico del grande interprete classico: l’assoluta dedizione a uno specifico mondo espressivo, che gli rende difficile una condivisione totale dell’esperienza musicale. Più che una critica, quel pizzico di partecipazione in meno è qualcosa che mi dispiace a livello umano. Del resto io che sono sempre stato un curioso, una carta assorbente, potrei scivolare nel difetto opposto, la dispersione. So benissimo invece che cosa invidio a mio fratello: la sua capacità pazzesca di leggere e interpretare a prima vista ogni tipo di partitura.