Corriere della Sera - La Lettura
La risata è una via di fuga, evviva!
Comicità L’umorismo trascende la realtà quotidiana, rompe la crosta dell’abitudine. Ci permette di usare la tela di significati in cui siamo avvolti per tessere un filo su cui camminare in equilibrio come acrobati verso altri mondi Disavventure Uno studioso che avvicina popolazioni native risulta spesso goffo per scarsa conoscenza del contesto o delle aspettative altrui
«Scoppiare in una risata», «ridere a crepapelle», «sbellicarsi» (letteralmente, «rompersi l’ombelico»). Molte espressioni che usiamo, a proposito di quella complessa galassia che è il ridicolo, indicano l’incapacità di contenersi e «contenere» (le risate), una sorta di impulso a uscire da sé. Ridere è una via di fuga, oltre che dal quotidiano e dal reale, anche dalle culture che abitiamo?
Per un verso, ridere è un atto legato a uno specifico contesto sociale, come un gruppo di amici o di colleghi o, più ampiamente, una comunità simbolica. Michael Herzfeld direbbe che il ridere è un’espressione della intimità culturale che lega tra loro le persone di una certa società, le quali a volte ridono proprio di quei sottili aspetti della vita che tengono nascosti agli occhi degli estranei o che altri non hanno la capacità di cogliere ( Intimità culturale, L’àncora del Mediterraneo, 2003). Per fare un esempio, anche quando conosciamo bene la lingua, è difficile ridere di vignette pubblicate su giornali stranieri, a meno di non frequentare assiduamente il contesto.
Alain Vaillant, studioso di letteratura e di antropologia (in senso largo), distingue due forme o sfumature del ridere in La civilisation du rire (Cnrs, 2016). In una prima prospettiva, direi quasi etologica, il ridere è legato a rilassamento, a situazioni di non pericolo, all’essere (o credere di essere) al riparo da minacce. Lâcher prise, si direbbe in francese, ovvero essere nelle condizioni di «allentare la presa» o la «morsa» del reale. Forse gli animali non ridono molto, ma scherzano e giocano tanto, quando le condizioni lo permettono. Incontrare un ubriaco per strada (prototipo di una persona comica, almeno per una lunga parte della storia del teatro), che barcolla e si indirizza a noi biascicando, è un’esperienza non piacevole se è notte e siamo da soli. Se, viceversa, è pieno giorno, siamo in compagnia di amici e in una via affollata, può scapparci una risata. Rispetto a questo significato etologico, c’è tuttavia una specificità umana del ridere. La esprimeva molto bene Peter Berger, nel suo classico Homo ridens (il Mulino, 1997). Il comico è una via di accesso alla «trascendenza». «L’umorismo — scrive Berger — trascende la realtà dell’esistenza ordinaria e quotidiana: esso postula, seppure temporaneamente, una realtà diversa in cui i princìpi e le norme della vita comune vengono sospesi». Ridere è come una finestra aperta su un paesaggio che sta «oltre», una via di fuga dalla realtà quotidiana, una scossa capace di rompere quella che i primi antropologi chiamavano la «crosta dell’abitudine». La dimensione comica, per Berger, è una condizione universale degli umani, perché siamo esseri grotteschi, sospesi in questa «ridicola posizione tra i microbi e le stelle … con la capacità di collocarsi in qualche modo fuori di sé (Helmuth Plessner parlava di una natura eccentrica dell’essere umano)».
Il ridicolo e il comico che lo traduce in spettacolo sono parte delle capacità meta-culturali degli esseri umani, al pari del teatro, della letteratura, del mito per alcuni versi. Siamo esseri simbolici, viviamo in parte prigionieri di mondi culturali che, al tempo stesso, ci avvolgono in una ragnatela di significati, ma ci forniscono anche l’unica condizione per tessere fili in altre direzioni. Ridere è un po’ come camminare su uno di questi fili dell’immaginario.
Tocchiamo qui il cuore della questione a cui accennavo all’inizio, ovvero il ruolo del ridicolo nelle relazioni interculturali. Ridere degli altri, di intere categorie di altri (quante barzellette su belgi, giapponesi, americani…) per molti versi è un atto denigratorio, a meno che non si accom- pagni a una buona dose di autoironia. Si ride in questo caso di caratteristiche attribuite a gruppi, comunità, intere nazioni. Questo tipo di risata crea stereotipi (o li rende manifesti), rafforza il senso del «noi», aumenta la sicurezza dando sostanza ai confini simbolici del gruppo.
Non è questa, tuttavia, l’ironia antropologica di cui parlava uno dei più importanti studiosi del Novecento, Clifford Geertz. In un articolo del 1968 ripubblicato molto più tardi ( Antropologia e filosofia, il Mulino, 2001), Geertz racchiudeva nell’espressione «ironia antropologica» quella trama di finzioni («finzione, si badi, non falsità») che legano sul campo il ricercatore e il nativo. È una trama fatta di equivoci, ambiguità, posizionamenti, un insieme di «tattiche di avvicinamento» mediante cui l’antropologo tenta di comprendere il punto di vista del nativo. La goffaggine dell’«apprendista stregone» (il ricercatore) è spesso evidente.
Una volta, sull’isola di Futuna in Polinesia, i bambini e i ragazzi con cui vivevo mi dissero di aspettare qualche minuto l’arrivo della loro nonna. Appena lei comparve mi chiesero di dire il suo nome: alle prime armi col polinesiano, pronunciai Fana invece di Fanga, chiamandola quindi «fucile» ( fana) e suscitando una generale risata. L’ironia sul campo di ricerca, però, non è legata solo all’inadeguatezza del ricercatore, alla sua incapacità di mostrarsi parte del contesto, ma anche alle aspettative che l’antropologo ha verso i suoi interlocutori. Sempre a Futuna, un giorno mi capitò di essere invitato da un pastore evangelico a un pranzo di famiglia. L’evangelismo, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, aveva appena fatto la sua comparsa sull’isola e si presentava come un fattore di «modernizzazione» rispetto al carattere «arcaico» dei capi tradizionali che, ormai da 150 anni, avevano aderito al cattolicesimo. Alla fine del pasto, il pastore servì scodelle di una crema bianca che mi ricordava, in forma un po’ liquida, i dolci preparati sull’isola con la farina di taro, un tubero coltivato in tutta l’Oceania. Chiesi: «Come si chiama questo dolce tradizionale»? Feci una terribile gaffe, perché si trattava di un gelato alla crema, semi-sciolto nel caldo clima tropicale! Quella gaffe determinò un allontanamento tra me e l’interlocutore. Non tanto per l’errore in sé, ma perché — così mi sono spiegato in seguito il suo evidente imbarazzo — avevo messo in discussione una «finzione» che, fino ad allora, aveva creato complicità tra noi, seppure a mia parziale insaputa. Il pastore era vissuto a lungo in Francia e in vari Paesi industrializzati, era un po’ un occidentale, proprio come me. Scambiando il gelato per taro lo avevo relegato in una dimensione «altra» e a suo vedere «tradizionale» se non «primitiva», da cui faceva di tutto per venir fuori.
L’ironia antropologica, come ha messo in luce il recente saggio di Eugenio Imbriani Sull’ironia antropologica (Progedit, 2014), non sempre fa ridere, soprattutto non fa solo ridere. Gaffes, malintesi, incomprensioni sono modi per gettare ponti tra le persone e le culture, punti sensibili in cui, entrambe le parti in gioco, «noi» e «gli altri», prendono distanza dalle loro culture, uscendo da sé senza per questo poter trovare piena accoglienza nell’altro. Sospesi su un filo immaginario riteniamo, magari illusoriamente e per un attimo, di poter andare in entrambe le direzioni. Più che seppellirci, le risate ci cacciano un po’ fuori da culture troppo seriose e avvolgenti, e forse ce n’è bisogno di questi tempi.