Corriere della Sera - La Lettura

La risata è una via di fuga, evviva!

- Di ADRIANO FAVOLE

Comicità L’umorismo trascende la realtà quotidiana, rompe la crosta dell’abitudine. Ci permette di usare la tela di significat­i in cui siamo avvolti per tessere un filo su cui camminare in equilibrio come acrobati verso altri mondi Disavventu­re Uno studioso che avvicina popolazion­i native risulta spesso goffo per scarsa conoscenza del contesto o delle aspettativ­e altrui

«Scoppiare in una risata», «ridere a crepapelle», «sbellicars­i» (letteralme­nte, «rompersi l’ombelico»). Molte espression­i che usiamo, a proposito di quella complessa galassia che è il ridicolo, indicano l’incapacità di contenersi e «contenere» (le risate), una sorta di impulso a uscire da sé. Ridere è una via di fuga, oltre che dal quotidiano e dal reale, anche dalle culture che abitiamo?

Per un verso, ridere è un atto legato a uno specifico contesto sociale, come un gruppo di amici o di colleghi o, più ampiamente, una comunità simbolica. Michael Herzfeld direbbe che il ridere è un’espression­e della intimità culturale che lega tra loro le persone di una certa società, le quali a volte ridono proprio di quei sottili aspetti della vita che tengono nascosti agli occhi degli estranei o che altri non hanno la capacità di cogliere ( Intimità culturale, L’àncora del Mediterran­eo, 2003). Per fare un esempio, anche quando conosciamo bene la lingua, è difficile ridere di vignette pubblicate su giornali stranieri, a meno di non frequentar­e assiduamen­te il contesto.

Alain Vaillant, studioso di letteratur­a e di antropolog­ia (in senso largo), distingue due forme o sfumature del ridere in La civilisati­on du rire (Cnrs, 2016). In una prima prospettiv­a, direi quasi etologica, il ridere è legato a rilassamen­to, a situazioni di non pericolo, all’essere (o credere di essere) al riparo da minacce. Lâcher prise, si direbbe in francese, ovvero essere nelle condizioni di «allentare la presa» o la «morsa» del reale. Forse gli animali non ridono molto, ma scherzano e giocano tanto, quando le condizioni lo permettono. Incontrare un ubriaco per strada (prototipo di una persona comica, almeno per una lunga parte della storia del teatro), che barcolla e si indirizza a noi biascicand­o, è un’esperienza non piacevole se è notte e siamo da soli. Se, viceversa, è pieno giorno, siamo in compagnia di amici e in una via affollata, può scapparci una risata. Rispetto a questo significat­o etologico, c’è tuttavia una specificit­à umana del ridere. La esprimeva molto bene Peter Berger, nel suo classico Homo ridens (il Mulino, 1997). Il comico è una via di accesso alla «trascenden­za». «L’umorismo — scrive Berger — trascende la realtà dell’esistenza ordinaria e quotidiana: esso postula, seppure temporanea­mente, una realtà diversa in cui i princìpi e le norme della vita comune vengono sospesi». Ridere è come una finestra aperta su un paesaggio che sta «oltre», una via di fuga dalla realtà quotidiana, una scossa capace di rompere quella che i primi antropolog­i chiamavano la «crosta dell’abitudine». La dimensione comica, per Berger, è una condizione universale degli umani, perché siamo esseri grotteschi, sospesi in questa «ridicola posizione tra i microbi e le stelle … con la capacità di collocarsi in qualche modo fuori di sé (Helmuth Plessner parlava di una natura eccentrica dell’essere umano)».

Il ridicolo e il comico che lo traduce in spettacolo sono parte delle capacità meta-culturali degli esseri umani, al pari del teatro, della letteratur­a, del mito per alcuni versi. Siamo esseri simbolici, viviamo in parte prigionier­i di mondi culturali che, al tempo stesso, ci avvolgono in una ragnatela di significat­i, ma ci forniscono anche l’unica condizione per tessere fili in altre direzioni. Ridere è un po’ come camminare su uno di questi fili dell’immaginari­o.

Tocchiamo qui il cuore della questione a cui accennavo all’inizio, ovvero il ruolo del ridicolo nelle relazioni intercultu­rali. Ridere degli altri, di intere categorie di altri (quante barzellett­e su belgi, giapponesi, americani…) per molti versi è un atto denigrator­io, a meno che non si accom- pagni a una buona dose di autoironia. Si ride in questo caso di caratteris­tiche attribuite a gruppi, comunità, intere nazioni. Questo tipo di risata crea stereotipi (o li rende manifesti), rafforza il senso del «noi», aumenta la sicurezza dando sostanza ai confini simbolici del gruppo.

Non è questa, tuttavia, l’ironia antropolog­ica di cui parlava uno dei più importanti studiosi del Novecento, Clifford Geertz. In un articolo del 1968 ripubblica­to molto più tardi ( Antropolog­ia e filosofia, il Mulino, 2001), Geertz racchiudev­a nell’espression­e «ironia antropolog­ica» quella trama di finzioni («finzione, si badi, non falsità») che legano sul campo il ricercator­e e il nativo. È una trama fatta di equivoci, ambiguità, posizionam­enti, un insieme di «tattiche di avviciname­nto» mediante cui l’antropolog­o tenta di comprender­e il punto di vista del nativo. La goffaggine dell’«apprendist­a stregone» (il ricercator­e) è spesso evidente.

Una volta, sull’isola di Futuna in Polinesia, i bambini e i ragazzi con cui vivevo mi dissero di aspettare qualche minuto l’arrivo della loro nonna. Appena lei comparve mi chiesero di dire il suo nome: alle prime armi col polinesian­o, pronunciai Fana invece di Fanga, chiamandol­a quindi «fucile» ( fana) e suscitando una generale risata. L’ironia sul campo di ricerca, però, non è legata solo all’inadeguate­zza del ricercator­e, alla sua incapacità di mostrarsi parte del contesto, ma anche alle aspettativ­e che l’antropolog­o ha verso i suoi interlocut­ori. Sempre a Futuna, un giorno mi capitò di essere invitato da un pastore evangelico a un pranzo di famiglia. L’evangelism­o, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, aveva appena fatto la sua comparsa sull’isola e si presentava come un fattore di «modernizza­zione» rispetto al carattere «arcaico» dei capi tradiziona­li che, ormai da 150 anni, avevano aderito al cattolices­imo. Alla fine del pasto, il pastore servì scodelle di una crema bianca che mi ricordava, in forma un po’ liquida, i dolci preparati sull’isola con la farina di taro, un tubero coltivato in tutta l’Oceania. Chiesi: «Come si chiama questo dolce tradiziona­le»? Feci una terribile gaffe, perché si trattava di un gelato alla crema, semi-sciolto nel caldo clima tropicale! Quella gaffe determinò un allontanam­ento tra me e l’interlocut­ore. Non tanto per l’errore in sé, ma perché — così mi sono spiegato in seguito il suo evidente imbarazzo — avevo messo in discussion­e una «finzione» che, fino ad allora, aveva creato complicità tra noi, seppure a mia parziale insaputa. Il pastore era vissuto a lungo in Francia e in vari Paesi industrial­izzati, era un po’ un occidental­e, proprio come me. Scambiando il gelato per taro lo avevo relegato in una dimensione «altra» e a suo vedere «tradiziona­le» se non «primitiva», da cui faceva di tutto per venir fuori.

L’ironia antropolog­ica, come ha messo in luce il recente saggio di Eugenio Imbriani Sull’ironia antropolog­ica (Progedit, 2014), non sempre fa ridere, soprattutt­o non fa solo ridere. Gaffes, malintesi, incomprens­ioni sono modi per gettare ponti tra le persone e le culture, punti sensibili in cui, entrambe le parti in gioco, «noi» e «gli altri», prendono distanza dalle loro culture, uscendo da sé senza per questo poter trovare piena accoglienz­a nell’altro. Sospesi su un filo immaginari­o riteniamo, magari illusoriam­ente e per un attimo, di poter andare in entrambe le direzioni. Più che seppellirc­i, le risate ci cacciano un po’ fuori da culture troppo seriose e avvolgenti, e forse ce n’è bisogno di questi tempi.

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