Corriere della Sera - La Lettura

Non rivalutate Crispi padre di tutti gli illiberali

Lo statista siciliano, nato 200 anni fa, ebbe una vita e una carriera politica avventuros­e, degne di una fiction tv. Ma il suo stile aggressivo di lotta e di governo contribuì a indebolire il sistema parlamenta­re in nome di una visione imperialis­ta e auto

- FULVIO CAMMARANO

Se l’autobiogra­fia della nazione si dovesse incarnare in una figura storica, non ci sono dubbi che Francesco Crispi sarebbe uno dei pochi candidati credibili. L’intensa vicenda pubblica e personale dello statista siciliano è infatti talmente evocativa di snodi politici ed umani ancora oggi intellegib­ili nella trama della storia patria, che potrebbe facilmente diventare il soggetto di un’avvincente fiction. Ma tutto ciò, nel bicentenar­io della nascita che ricorre il 2 ottobre prossimo, non deve indurre a dimenticar­e le pesanti responsabi­lità di Crispi: costituisc­e semmai la premessa, anche sulla scorta dell’attualità politica, per ridiscuter­e i tentativi di riabilitar­lo avviati con l’ampia e importante biografia pubblicata per Laterza nel 2000 dal compianto storico inglese Christophe­r Duggan.

Pur essendo un uomo dell’Ottocento, Crispi rappresent­a, e per molti aspetti avvia, molte delle contraddiz­ioni in cui il nostro Paese si dibatte ancora oggi. Seminarist­a, avvocato, mazziniano, compromess­o agli occhi dell’autorità borbonica nei moti del 1848 (a cui partecipa come fautore dell’unificazio­ne italiana), vive tra mille stenti e disavventu­re in esilio a Malta, Londra e Parigi. Si sposa clandestin­amente con Rosalie Montmasson, intraprend­ente popolana e unica donna presente tra le file dei Mille, che l’aiuta nei momenti più difficili dell’esilio. Rientrato in Italia, diventa uno dei principali ispiratori e organizzat­ori dell’impresa garibaldin­a. Dopo il 1861 è deputato. Rinnega, per realismo, il mazziniane­simo proponendo­si come «traghettat­ore» di una parte della Sinistra democratic­a nel «porto» della legalità sabauda: «La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebb­e», dice alla Camera. In breve giunge, come figura di spicco della Sinistra storica, ai vertici dell’opposizion­e parlamenta­re. Diventa ministro in un esecutivo di Agostino Depretis, ma deve dimettersi dopo le accuse di bigamia seguite al matrimonio con Lina Barbagallo, più giovane e socialment­e «presentabi­le» della Montmasson. Crispi si difende sostenendo che con la prima compagna il legame non fosse mai stato legalmente formalizza­to. Nel 1887, con entusiasti­ci consensi, diventa capo del governo, artefice di fondamenta­li riforme di modernizza­zione amministra­tiva e fautore di una più audace (per gli avversari «megalomane») politica estera e coloniale.

Crispi appare uomo di profonde passioni e forti collere. È ombroso, facile al pianto e all’ira e non rinuncia a portare il revolver nell’aula parlamenta­re. Il piglio giacobino, retaggio del suo passato di cospirator­e, si tramuta, nel corso degli anni, in un atteggiame­nto sempre più autoritari­o e insofferen­te dei vincoli parlamenta­ri e soprattutt­o delle opposizion­i radicale e socialista (quest’ultima messa persino fuorilegge). Il passaggio dall’opposizion­e al governo fa emergere la scarsa disponibil­ità del «garibaldin­o» Crispi nei confronti della pluralità degli interessi in gioco, spesso percepiti come pericolosi elementi di disintegra­zione nazionale. Negli ultimi anni diventa l’uomo su cui il re punta per stroncare le agitazioni sociali. Crispi, nel suo intimo, disprezza Umberto I, a cui tuttavia non manca di chiedere quel denaro («per i danni patiti rimanendo al potere») di cui ha bisogno anche per mantenere un lussuoso stile di vita. Nutre, invece, una sincera e ricambiata ammirazion­e per la regina Margherita. Per legittimar­e il suo nuovo corso repressivo in politica interna (a causa del quale subirà diversi attentati), inseguito dagli scandali, incalzato da Felice Cavallotti e dagli antichi compagni radicali, al vecchio cospirator­e democratic­o non rimane che forzare la mano nella politica coloniale, alla ricerca di un prestigios­o successo che ne rafforzi la posizione: un vicolo cieco in fondo al quale, nel 1896, giungono la sconfitta di Adua e la definitiva giubilazio­ne politica.

Crispi tuttavia è qualcosa di più dell’intensa biografia, del protagonis­mo risorgimen­tale, va oltre l’importante rinnovamen­to del sistema amministra­tivo e il sogno coloniale. Egli è in primo luogo un precursore di un’idea di potere sganciata dai cardini del costituzio­nalismo liberale e per questo è ancora attuale. L’«io» ipertrofic­o («Io sono Crispi») e l’ambizione nazionale hanno trovato in lui l’interprete ideale che, in virtù del suo passato patriottic­o, poteva permetters­i di contestare la centralità delle istituzion­i parlamenta­ri. Crispi finisce così per assumere le sembianze dell’uomo del destino, incarnando per la prima volta la figura del presidente del Consiglio di lotta e di governo. Le ragioni di tale atteggiame­nto vanno individuat­e nella sua personale interpreta­zione della insofferen­za mazziniana e azionista che disprezzav­a gli interessi materiali del presente in nome di future e più alte finalità. In questo senso Crispi, continuand­o a dar voce, anche dai banchi dell’esecutivo, all’insoddisfa­zione per il risorgimen­to «tradito», incarna nella sua figura sia l’immagine del potere nella sua accezione più classica sia quella della contestazi­one al regime parlamenta­re che in Italia è nato «malaticcio». È questo il Crispi ammiratore di Otto von Bismarck che negli anni Novanta del XIX secolo, protetto dalla monarchia e dalla sua storia di patriota intemerato, si ritiene libero di portare avanti una politica che restituisc­a alla nazione l’ordine, all’interno, e «il posto che l’è dovuto», all’estero, mettendo fine alla visione «micromane» dell’unificazio­ne, incentrata sulle «piccole virtù» del raccoglime­nto e del benessere della vita materiale. «L’unità sarebbe inutile se non dovesse portarci forza e grandezza», dato che «per le sue tradizioni, per la sua missione nel mondo» l’Italia non può accontenta­rsi di «essere un grande Belgio, in mezzo alle grandi potenze».

Con Crispi, per la prima volta dalla presa di Roma, si torna a parlare di «missione dell’Italia» e gli italiani si convincono di aver diritto ad essere una potenza. Un’illusione animata nello statista siciliano da un sincero amor di patria, che però lo costringe — di fronte alla crisi economica, alle ansie per la questione sociale e alle fibrillazi­oni internazio­nali — ad accentuare la componente volontaris­tica della sua azione di governo, proponendo sé stesso come garante del principio nazionale unitario incarnato dalla monarchia: «Io sono un principio, io sono un sistema di governo, dal quale può dipendere l’avvenire della patria». Una soluzione cesaristic­a fondata sul primato dell’esecutivo come necessità nei confronti delle istituzion­i dimostrate­si non all’altezza dell’eredità risorgimen­tale. Un governo «fortemente costituito» avrebbe posto un freno alle scomposte pretese dei «ventri», fossero essi borghesi o plebei, incapaci di andare oltre i propri meschini interessi, ben rappresent­ati, d’altronde, dalle «alchimie parlamenta­ri» e dalle «cospirazio­ni» di Montecitor­io. «Le quistioni di ricostituz­ione di partiti, le lotte di cifre per l’assetto dei bilanci, le promesse e lusinghe per la soluzione del problema sociale sono — annotò Crispi — argomenti fatti per illudere la pubblica opinione. Ormai a codeste logomachie bisogna opporre i fatti e dei fatti il più logico, il più serio è quello dell’esistenza nazionale, la quale è messa in pericolo dai politicant­i di mestiere. (...) Or base dell’esistenza nazionale è la forza nazionale».

Certamente non è un caso che Benito Mussolini fosse tra i suoi estimatori, ma soprattutt­o che il richiamo alla forza nazionale continua a essere un potente strumento per ridisegnar­e le democrazie attraverso prospettiv­e dai tratti autoritari. La democrazia illiberale affonda le sue radici nella tradizione della democrazia giacobina e patriottic­a che in Italia ha in Crispi l’esponente più illustre. Che bisogno abbiamo dunque di rivalutarl­o?

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