Corriere della Sera - La Lettura
1918, voci e musica dei prigionieri
Reggio Emilia, Avellino, e non solo: convegni, mostre e concerti propongono gli spartiti dei soldati italiani detenuti nei campi asburgici e tedeschi. Digitalizzate le loro canzoni incise allora
Cantavano, suonavano. La vita dei prigionieri italiani nei Lager austro-tedeschi, durante la Prima Guerra mondiale, pur nell’asprezza delle condizioni, fra torture, violenze, malattie e privazioni, in molti casi era piena di musica. Musica come svago, ma soprattutto come ricreazione ideale di una normalità perduta, voce degli affetti e del Paese lontano. Il suono di casa. A quasi cent’anni dal 4 novembre 1918, un convergere di notevoli ritrovamenti porta in evidenza quanto la consolazione (e la conoscenza) della musica fossero diffuse e significative presso i prigionieri italiani.
Due sono le riscoperte più avvincenti (e toccanti). La prima è la storia di una banda. Sabato 6 ottobre, a Reggio Emilia, il convegno Pause del silenzio, all’Istituto «Peri-Merulo», presieduto da Carlo Per ucchett i del Centro St udi Musica e Grande Guerra, oltre a interventi di studiosi come Giampaolo Minardi su Malipiero o di Francesco Fontanelli su Alfredo Casella, punta l’attenzione sul Lager asburgico di Mauthausen. Dove i prigionieri italiani avevano costituito una banda (e un’orchestra). «Va a suonare il giovedì e la domenica presso la “BaraccaVillino” del colonnello comandante del campo — testimoniava il diario del prigioniero Michele Francescantonio Daniele, Calvario di guerra del 1932 — ma suona pure a fianco dei reticolati (...), per dare agio alla popolazione civile di ascoltare della buona musica senza alcuna spesa. Parte degli strumenti si sono avuti dall’Italia, avendo l’autorità permessane l’entrata, e parte sono stati donati da associazioni austriache di Vienna».
Il copista della banda, Pietro Gilardi di Bellano, suonatore di cornetta in si bemolle e meticoloso annotatore di date e circostanze, riuscì a inviare o portare in Italia molte delle musiche là composte: un prezioso fondo di inediti, ora conservato nell’archivio del Corpo Filarmonico di Gravedona (Como). «Sono circa quaranta fascicoli — spiega Alessio Benedetti, curatore dell’archivio — tra partiture e parti staccate. Gilardi era stato catturato il 28 novembre 1915; le date di copiatura vanno dal marzo 1916 all’ottobre 1918.
Nel fondo, insieme a trascrizioni da La traviata, Rigoletto o La vedova allegra, da Boccaccio o Poeta e contadino di von Suppé, si trovano soprattutto le creazioni originali di un altro prigioniero, Angelo Bertoli: Italia, Libertà, Pensando a te, Mauthausen Lager Sport (nel campo era nata un’associazione sportiva e questo era forse il suo inno); e Nina, dedicata alla figlia, nata durante la prigionia e ancora mai abbracciata». Al convegno di Reggio, per la prima volta, il Corpo Musicale di Ballabio intonerà proprio la mazurka Nina (1916) e la polka Fumando (1917) di Bertoli, mentre altri interpreti eseguiranno brani pianistici o corali come il tempestoso Pause del silenzio di Malipiero, Alla patria (1917) o Esulta Trento (1919) di Riccardo Zandonai.
Nel convegno Musica, arte e grande guerra, progetto di Tiziana Grande e Antonio Caroccia, il 3 e 4 ottobre al Conservatorio «Cimarosa» di Avellino, e in quello all’Università di Udine, il 2 e 3 novembre, a cura di Andrea Zannini, spicca l’altra notevole riscoperta: Ignazio Macchiarella, professore di etnomusicologia all’Università di Cagliari, presenta il suo saggio, scritto con Emilio Tamburini, Le voci ritrovate. Canti e narrazioni di prigionieri italiani della Grande Guerra negli archivi sonori di Berlino( edizioni Nota), con quattro cd allegati. È un lavoro svolto c on ilPh on og ram marchivd ell’Ethnologisches Museum,ilL aut arch iv della Humboldt Universität di Berlino e il Labimus dell’Università di Cagliari. Sono le vere voci dei prigionieri italiani (a oggi una delle più antiche fonti sonore di «italiani comuni») rese udibili grazie alla digitalizzazione dei cilindri e dischi di cera incisi dalla Preussische Phonographische Kommission: un’équipe stipendiata dal Kaiser in persona e incaricata di svolgere pionieristiche ricerche di dialettologi aedi etnomusicologia, «usando» prigionieri di guerra di svariate etnie. «La Kommission — spiega Macchiarella — seguiva un protocollo standard: al prigioniero scelto chiedeva la trascrizione del brano che questi avrebbe intonato nel suo dialetto, con la traduzione in italiano; quindi lo faceva cantare, la bocca dentro l’imbuto del fonografo. Tutti, poi, dovevano recitare la parabola del Figliol prodigo. La parte italiana, registrata nel campo di Limburg an der Lahn, è raccolta in 11 cilindri: un totale di 72 brani e circa 30 varianti regionali. I nostri cd contengono anche file di filastrocche, testi di canzoni, informazioni sul mestiere e la scolarizzazione dei soldati». Un brivido, ascoltare queste voci antiche, testimonianza viva di un’Italia scomparsa. Sono brani popolari, anche allegri, canti di osteria, magari con doppi sensi, o canti di nostalgia. Nulla mai che riguardi la guerra. Il siciliano Giuseppe Liotta canta «Amici, amici, ca m Palermu iti/ mi salutati dda sta bedda citati» («Amici che andate a Palermo, salutatemi quella bella città»), Vincenzo Ravellino da Napoli sceglie Nun te voglio, Cuncetté («Cuncetté non fai per me/ pecché fai troppa tolette»); il sardo Giuseppe Loddo, il lamento funebre Sa campana trista... «Sono soldati un po’ di tutte le regioni allora italiane, tranne Basilicata, Abruzzo e Molise. Chissà se avevano mai visto un grammofono... Probabilmente udivano la loro voce registrata per la prima volta. Di alcuni stiamo rintracciando i discendenti: abbiamo ritrovato la figlia di un soldato sardo che ha lasciato ben 12 tracce e le abbiamo fatto ascoltare la voce del padre. Grande emozione. Poi ci ha detto: “E pensare che non gli piaceva cantare”».