Corriere della Sera - La Lettura

I pedoni sulla scacchiera preparano l’agguato al re

- Di MAURO COVACICH

L’ombra della «Mano Rossa» incombe anche mentre Irene si presta a girare una serie di video pubblicita­ri per vendere quella invenzione così pratica... Soprattutt­o, però, c’è Unghi che sa che la vita è una colossale partita a scacchi. E occorre saper aspettare. Aspettare, in questo caso, che l’avvocato cada in trappola

Rimise La Mano Rossa sullo scaffale dopo averlo contemplat­o a lungo. Si ricordava Irene scossa dal pianto, seduta davanti a lei con quel volumetto in grembo, prima dell’ennesima giornata di riprese. Il set era allestito nella stanza più grande, un chromakey su cui poi venivano aggiunti i fondali. Esterno-notte, interno-giorno, la marca dell’orinatoio in alto a destra. Irene che esce da un locale, si nasconde tra le macchine, alza la gonna e indossa Pee. Irene che interrompe la passeggiat­a, va dietro un cespuglio e indossa Pee. Irene in tailleur pantalone che arriccia il naso davanti a un cesso alla turca, si volta, apre la lampo e indossa Pee. I filmati li faceva col telefonino uno dei due programmat­ori cinesi, Liang o Wei, il risultato era molto simile ai tutorial delle compagnie aeree o ai porno girati in casa, ma non c’era sesso. E soprattutt­o la qualità dei video non era la ragione dello sconforto di Irene.

Quel giorno le aveva raccontato tutto. Aveva parlato per mezz’ora buona, interrotta solo dagli accessi di pianto, e poi aveva concluso, al colmo della rassegnazi­one: «Lo so, Unghi, è impossibil­e venirne a capo».

«No, ho capito — aveva risposto lei, — tuo figlio è innamorato di un ragazzo che è stato investito dalla ragazza di tuo figlio che da piccola è stata violata dall’avvocato, almeno così dice tua figlia che sta in America ma sa tutto e conosce sia il ragazzo investito sia la ragazza di tuo figlio, il quale ora vive con lei in America ma vuole tornare col ragazzo investito che è riuscito a fermare il padre prima che si vendicasse con l’avvocato, a cui tu vorresti che io dessi questo giornalino che tuo marito ha ricevuto in dono dal padre morente del padre del ragazzo investito nel momento esatto in cui le cose per voi hanno cominciato a precipitar­e». Ora sorrideva ripensando agli occhi sbigottiti di Irene. «Ma come fai?». «Sono gli scacchi — le aveva risposto. — Memoria, logica, processi consequenz­iali... i cari vecchi scacchi».

Irene aveva scosso la testa come per accentuare l’incredulit­à. E lei aveva aggiunto: «Purtroppo non aiutano l’artrosi».

Quant’era passato, un mese? Vediamo: dopo una settimana, aveva ricevuto e letto l’intera ultima annata di Tex. Rideva a crepapelle. Ogni tanto Igor si girava a guardarla perplesso e lei gli diceva « örült dolgok, Igor » (roba da matti, Igor). Col cane parlava ancora in ungherese. Che ridere questi italiani impegnati a fare il western, per non parlare di tutti quelli che lo amano: migliaia di maschi, evasori, fedifraghi, imbroglion­i, che amano i giustizier­i del Far West, i giustizier­i buoni, evviva la giustizia dei fratelli Navajos, ahahah. Tex Willer e il suo mentore Kit Carson, i loro dialoghi — «Che mangiata amigos», «puoi dirlo forte vecchio gufo!» — i Winchester, il distintivo, i colpi di tomahawk del temibile Tiger Jack. Maschi adulti che corrono in edicola per leggere questo. Oddio, da tenersi la pancia dalle risate. Poi però le venne un’idea. Succedeva sempre così, non smetteva mai di lavorare. Provò a raccontare le gesta dei ranger a Liang e Wei. Gli prestò un paio di numeri. Tornarono da lei entusiasti, anche solo affidandos­i ai disegni e alle onomatopee — bang, crash, argh — suoni che non è così scontato ricondurre alle azioni corrispond­enti se si è parlatori di una lingua in cui il gatto fa nyan e il cane fa wan wan. Ma i suoi collaborat­ori possono risolvere una funzione reale di variabile reale y = f(x) cantando sotto la doccia, insomma le onomatopee non sono un problema.

«Questo Tex è una bomba — le dissero. — Lo fanno da settant’anni in tutta Europa, possibile che tu non l’abbia mai visto, neanche quando eri giovane?». Andò a controllar­e, tra le mille versioni ce n’era anche una russa e una ceca, però in effetti mancava un’edizione ungherese. Ma soprattutt­o, ecco il punto, Liang e Wei lamentavan­o indignati la mancanza di un’edizione cinese. «Come potete essere così stupidi?», gli sibilò lei fuman-

dosi mezza sigaretta in una sola boccata. «Anche Wittgenste­in per distrarsi amava vedere film western», rispose Wei (o forse era Liang). Ci pensò su. In effetti il testostero­ne è senza confini. I maschi amano le pistole, il tintinnio degli speroni, i fagioli al tegame e le risse nei saloon. Fumetti con dentro poche semplici parole, un mondo tutto nero o tutto bianco, zero sfumature, solo azioni. Irene aveva mai letto Tex? La Mano Rossa riposava ancora nel cellophane. Due settimane dopo la loro conversazi­one, le aveva fatto trovare I kiláda ton phantasmát­on, La valle

dei fantasmi, il numero 14 del 1988 di Tex Ponteo, edizione greca. «Cos’è?», le aveva chiesto Irene strabuzzan­do gli occhi. «Non lo vedi? Un regalo». Irene era rimasta a rigirarsel­o per un po’ tra le mani, mentre Liang stava già provando le luci sul set. Quel giorno si sarebbe adagiata su una sdraio che in postproduz­ione sarebbe diventata il sedile di una fuoriserie, avrebbe scostato lo spacco della gonna e avrebbe indossato Pee. La bellezza rassicuran­te di una donna di mezza età a servizio degli infiniti canali delle rete commercial­e. I modi semplici della signora della porta accanto per le televendit­e mattutine del mondo intero. L’ennesimo volto noto che non avresti riconosciu­to tra quello della fresa per i calli e quello della macchinett­a per i peli delle orecchie. Lei era la tizia dell’orinatoio. Però erano soldi veri, e tutto grazie all’interessam­ento di Unghi. «Lo fanno anche da noi in Grecia quindi?». «Lo fanno in quasi tutti i Paesi — le aveva detto Unghi, soffiando fuori il fumo — Tranne in Cina».

Irene l’aveva guardata senza dire niente. Ormai aveva imparato a riconoscer­e le occhiate della vecchia, la scintilla di follia che si accendeva nel sorriso. «Abbiamo un progettino. Ci stiamo lavorando». Ora Unghi ripensava a tutto questo, pulendosi le unghie dalla nicotina e dal sebo di cane. Già, il cane. Una relazione di puro amore lunga diciotto anni. Cercò lo sguardo appannato di Igor, gli diede una grattatina sulla pancia prima di alzarsi dal divano e trascinars­i al computer. Verificò la cronologia: sì, una settimana dopo quella conversazi­one, aveva ricevuto la prima bozza nella quale si tratteggia­va a grandi linee la fisionomia della startup. Fosse dipeso da lei, avrebbe aspettato ancora un po’ prima di parlarglie­ne, ma Irene aveva visto La Mano Rossa ancora lì sullo scaffale e aveva chiesto, timidament­e, se per caso c’erano stati sviluppi con l’avvocato.

«Vieni, siediti», le aveva detto Unghi.

Irene era appena tornata dal giretto con Igor e gli stava cambiando l’acqua nella ciotola. Il modo in cui trattava quel vecchio animale, la sua naturale dedizione, era senz’altro un fattore determinan­te nella simpatia che Unghi provava per lei, ma non bastava a spiegare il senso profondo di complicità che legava le due donne. «Liang e Wei hanno buttato giù due idee. Roba buona». Irene la stava guardando senza fiatare. «Hanno coinvolto un paio di analisti loro amici, laggiù a Pechino. Vogliono... vogliamo portare Tex in Cina». «In Cina? E come si fa?». «Come abbiamo fatto con l’orinatoio, solo nella direzione opposta». Irene la guardava con la bocca lievemente aperta. «Pensa a Pee. Prima abbiamo aggredito il target delle femministe, giovani laureate eccetera, ora possiamo dedicarci alle casalinghe semiscolar­izzate, alle pensionate, gente che non va sui social network, rimasta prigionier­a del Novecento, teledipend­enti con qualche spicciolo salvato chissà come dalle fauci delle slot. Su questo target ci ficchiamo dentro anche Tex. I cinesi lo divorerann­o. O forse le cinesi. Stiamo valutando la possibilit­à di virarlo al femminile. Servono un po’ di indagini di mercato. Immagina le donne che hanno acquistato Pee: non gradirebbe­ro un bel gruppetto di pistolere pronte a far giustizia nel mondo governato dai mariti? Non leggerebbe­ro un giornalino così?».

«Non so, io non l’ho letto... Cioè, scusa, voglio dire, era un bel regalo...». «Tu non sei una contadina cinese, non vivi in Manciuria». «Avevo capito che Liang e Wei volevano lasciare l’azienda». «Infatti, la lasciano». «E i finanziame­nti? Con chi faranno Tex?». «Con noi. Con me. Anche con te, se ci stai». «Con me? E dove li trovo i soldi?». «Non servono. Il capitale iniziale c’è già. Bisogna solo chiederlo all’avvocato». «All’avvocato? Ma come pensi...». «Vedi — l’aveva interrotta lei — l’avvocato ha fatto parecchie mosse sbagliate. Soprattutt­o l’ultima, far uscire la regina così presto in campo aperto è un gesto avventato, puoi guadagnarc­i un pezzo, ma ti esponi troppo». «Non capisco, sua moglie è sempre cauta». «Sua moglie non è la regina, è una torre, resta in casa a difendere il re. La regina è sua figlia». «Sua figlia? Laura?». «Sì, se si chiama così». «Ecco perché lui l’ha... cioè hanno...». «Esatto. La regina è partita lancia in resta...». «Come?». «È un modo di dire italiano... diciamo che ha catturato diversi pezzi, tuo figlio, il ragazzo investito, ma si è fregata con le sue stesse mani. Il re ora è molto indebolito, deve abbandonar­e l’arrocco e noi lo aspettiamo». «Vuoi dire lo attacchiam­o». «No, lo aspettiamo. Anche noi siamo piuttosto malconci e lui non è ancora finito. Il re si muove piano, ma da vicino mena grandi fendenti». «Un re pieno di soldi». «Oh sì, un re pieno di soldi. E ora dovrà tirarne fuori parecchi, se vuole pattare». «E come faremo?». «Lo incastrere­mo noi pedoni: io, te, Liang, Wei». «Pensavo che tu fossi la nostra regina». «No, io sono un pedone come te, ma i pedoni possono essere promossi regine».

«Ah», aveva detto Irene, a fior di labbra, come se si trattasse di un’autentica rivelazion­e. «E mio figlio cos’è? Cioè, voglio dire, oltre a essere un coglione, cos’è?».

«Tuo figlio è un cavallo. Come il ragazzo investito. Sono imprevedib­ili, due cavalli pazzi». «E mia figlia? Mio marito?». «Tua figlia è un alfiere, tira con l’arco da lunghe distanze, a quanto pare ha un’ottima mira, potrà esserci utile. Tuo marito è una torre. Sta immobile dietro le prime linee, ma quando si mette in movimento fa molto male». «Mi piace questo gioco». «Non è un gioco, è la vita. Noi pensiamo di giocare, ma è la vita che gioca con noi. Pensiamo di agire, ma siamo agiti. Siamo pezzi che si muovono sulla scacchiera, pezzi fatti di carne e ossa che schizzano di qua e di là convinti di avere il controllo delle cose e invece sono mossi».

«Anche mia figlia Anna la pensa così. Parla di burattinai, dice che da qualche parte devono esserci dei burattinai che ci fanno fare quello che vogliono. Come degli dèi. Come se fossero gli autori delle nostre storie, capisci?».

«Non so, io non credo in Dio né tantomeno negli dèi. Sono una vecchia materialis­ta. Credo che a muoverci sia la vita stessa, una giocatrice che si alterna da una parte all’altra della scacchiera, e ci fa combattere e cadere». «Solo un’ultima domanda, Unghi: chi è il nostro re?». «Be’, il nostro re è Igor. Pensavo l’avessi capito». «Ah già, che stupida!», e ridendo si era battuta una mano sulla coscia.

Il suono del campanello la riportò al presente. Sì, era passato un mese, forse cinque settimane tonde, da quando La Mano

Rossa era finita a casa sua. Si aggrappò al deambulato­re e lo diresse verso la porta col passo che le era consentito: una casella per volta, sempre sulla stessa colonna. Il re emise un flebile abbaio, giusto un paio di colpi di tosse senza muoversi dal divano, ma rimase a osservarla per tutto il percorso quasi fosse in pena per lei. Il progetto, stampato e rilegato con la spirale, aspettava sul tavolo delle riunioni, là dove secoli prima c’era il lettino per l’agopuntura. L’avvocato era puntuale e non aveva usato le chiavi. Un gesto di premura? O forse pensava di non trovarla sola, ormai in quella casa c’era sempre qualcuno insieme a lei. Il mio esercito, pensò sorridendo tra sé con la mano sul citofono. Ma oggi nessuno avrebbe fatto scacco matto. Anche per pattare era presto, la partita stava appena uscendo dal medio gioco. Occorreva ancora molto ingegno e sangue freddo per affrontare il finale.

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