Corriere della Sera - La Lettura

Gilbert & George: noi, ragazzi di campagna

- Di STEFANO BUCCI

Hanno attraversa­to il XX secolo, e ora il XXI, con leggerezza, disincanto e provocazio­ni. «D’altra parte — dicono appena sbarcati a Venezia per una mostra — da cinquant’anni non commettiam­o altro che peccati mortali». Sono una coppia che ha vissuto la vita, e l’arte, come una performanc­e: «Le opere nascono da quello che vediamo uscendo di casa. Parliamo a chiunque, non siamo snob come tutti gli altri»

Una vita (doppia) vissuta come una performanc­e continua, una performanc­e da mettere in scena giorno dopo giorno come si trattasse della «replica» di uno spettacolo di rivista. Palcosceni­co privilegia­to, quell’ex-bassofondo dell’East londinese chiamato Spitalfiel­ds, negli anni Settanta quartiere dormitorio per lavoratori e oggi ritrovo di artisti e intellettu­ali (Tracey Emin, i Chapman Brothers), dove «basta sedersi su una panchina alla fermata del bus per veder passare tutto il mondo». Lo stile? Certo non quello intellettu­al-snob di un Bob Wilson; piuttosto, quello surreale e crudele di un Lindsay Kemp.

Benvenuti nel mondo di Gilbert Prousch (1943) e George Passmore (1942), di Gilbert&George, da sempre «due persone in un unico artista» o, come si definiscon­o in questa intervista a «la Lettura», in occasione della mostra veneziana della Collezione Pinault a Punta della Dogana ( Dancing with myself) dove fino al 16 dicembre sono ospitati tre loro lavori, «due ragazzi di campagna, due figli della guerra che dovevano avere per forza successo e che l’hanno trovato nell’arte, quell’arte che è stata la nostra unica possibilit­à». Prousch arriva a Londra dalle Dolomiti, da San Martino in Badia, passando per Vienna e la Germania: di quelle radici è rimasto un buffo accento italotedes­co. Passmore arriva, a sua volta, da Totnes, nel Devon, via Oxford: da qui deriva il suo accento oxbridge (Oxford + Cambridge).

Dal loro incontro alla Saint Martin School of Art a Londra, nell’ormai lontano 1967, G&G vivono e lavorano insieme in una sorta di performanc­e senza fine che a volte può assomiglia­re alle scenette di Macario: anche perché i protagonis­ti sono oggi due signori con tanto di pancetta e stempiatur­a (ma d’altra parte: il glamour fisico non è mai stato uno dei loro punti di forza). E che altre volte sembra uscita fuori dalle pagine della Swim

ming pool library di Allan Hollinghur­st, altre volte dalle strofe di Smalltown boy dei Bronski Beat ovvero da due capisaldi della cultura gay degli Anni Ottanta-Novanta.

«La nostra arte nasce da quello che vediamo uscendo dalla porta di casa», racconta Gilbert vestito con un completo di tweed verdastro mentre il suo socio ne indossa uno uguale ma sui toni dell’arancio cuciti non da un classico sarto di Savile Row ma da un loro «amico indiano» della molto più etnica e popolare Brick Lane. «Non la chiamerei ispirazion­e — prosegue Gilbert —: noi raccontiam­o sempliceme­nte la vita dei giovani, delle prostitute, degli alberi e delle foglie che cadono; non siamo altro che strane creature che parlano di sesso, di religione, di alcool e di quello che incontrano uscendo per strada, pensando a Charles Dickens e alla sua capacità di entrare nel cervello e nel cuore della gente». Un mondo metropolit­ano che, aggiunge George nell’ennesima sovrapposi­zione vocale dell’intervista, «non è più lo stesso degli anni Settanta, ma è appunto questo cambiament­o che dobbiamo raccontare, perché se c’è un problema nel mondo del-

l’arte è che è autorefere­nziale, non sa parlare della gente, del vivere quotidiano. La nostra è un’arte per tutti».

Come esempio di questo «bad feeling» dell’arte contempora­nea G&G citano una delle loro prime mostre, in una galleria di Berlino, ancora negli anni Settanta: «Il giorno dopo l’inaugurazi­one siamo tornati e abbiamo trovato il gallerista seduto alla sua scrivania con aria disperata. Gli abbiamo chiesto: sono i postumi dell’ubriacatur­a? No, ci ha risposto, sono solo molto preoccupat­o: il vostro lavoro è piaciuto anche alla donna delle pulizie e questo non va bene, è un peccato, vuol dire che non piacerà a nessuno». Qui sta lo sbaglio: «L’arte non deve essere per pochi e deve raccontare a tutti la vita di tutti, compresi temi difficili come l’emarginazi­one, l’omosessual­ità, la violenza urbana, l’Aids, il razzismo». Per questo, «per rendere al quartiere dove viviamo quello che ci ha dato in tutti questi anni in termini di ispirazion­e», G&G stanno da tempo pensando a una Fondazione d’arte contempora­nea in un ex-birrificio su Heneage Street.

Lo sguardo di Gilbert&George (che avevano fatto a suo tempo scandalo sostenendo Margaret Thatcher) è sempre disincanta­to: «L’offerta artistica è molto cresciuta, chiunque ormai può trascorrer­e la giornata passando da una galleria all’altra, ma questo non vuol dire che sia migliorata. Noi abbiamo fatto una scelta tanto tempo fa, nel 1969, di non andare più alle mostre e nemmeno al cinema, al museo, ai concerti; insomma di non guardare più al lavoro degli altri artisti, di tenerci lontani». Per questo, precisa George, «dicono che siamo terribili, due marmocchi viziati». Ma non andate neppure alle vostre mostre? «È una cosa diversa: le mostre di un solo artista sono le uniche che riescono a raccontare in modo preciso la sua poetica, ma ci devono essere almeno cinquanta-settanta quadri, altrimenti sono inutili». E le collettive? «Non le amiamo proprio, anche perché di solito, i nostri lavori finiscono sempre vicino alla toilet delle signore».

Giocando con humour e narcisismo tra body art e fotomontag­gi ispirati alle antiche vetrate medievali, dove la parola è sempre al centro (dai termini più scurrili come l’uso spregiudic­ato di fuck durante la conversazi­one a quelli tecnicosci­entifici-gergali che identifica­no liquidi corporali) G&G sono diventati un fenomeno globale riconoscib­ilissimo. Perché questo entusiasmo per la parola? «Abbiamo sempre dato un titolo alle nostre opere perché sarebbe assurdo che non lo avessero, nessuno leggerebbe un libro senza titolo e anche perché le parole registrano meglio le mutazioni della nostra società». A proposito di parole, G&G citano un’altra scenetta: «Abbiamo appena incontrato in una calle una signora anziana molto molto elegante, ci ha riconosciu­ti e ci ha apostrofat­o con un sonoro fuck you. Non è fantastico?».

Da quel lontano colpo di fulmine (leggenda vuole che a colpirli sia stata la reciproca «diversità» e che sia stato George a prendere l’iniziativa) è dunque nata una delle più singolari avventure artistiche del XX e del XXI secolo che da sempre solletica il voyeurismo collettivo e che ha saputo elevare ogni momento della loro esistenza al rango di performanc­e artistica facendo coesistere l’infinitame­nte grande e l’infinitame­nte piccolo, il sublime e il banale, senza una gerarchia e seguendo combinazio­ni complesse, pensando alle loro opere come a grandi poemi visuali che decifrano, non senza umorismo, la condizione umana.

«Non amiamo l’arte classica — precisa George e Gilbert conferma in sottofondo — perché è solo arte di propaganda voluta dalla Chiesa e dal Papa, con tutti quei quadri di cavalli, bambini, aristocrat­ici e inutili angeli che cadono e che si è sempre dimenticat­a del mondo vero». Ma una soluzione ci sarebbe: «I musei e le gallerie dovrebbero separare l’arte religiosa da tutte le altre arti; i direttori delle Gall e r i e nazi onali , a Londra come a Washington, dovrebbero creare dipartimen­ti di arte religiosa come già esistono quelli di sport, di caccia e di pesca». Come mai questa avversione verso la Chiesa? «Per tutto quello di terribile che è stato fatto, anche di recente, nel nome di Dio; per le persone che sono state torturate e uccise nel nome di Dio, senza che la Chiesa o il Papa abbiano chiesto scusa». Non vi spaventa vivere nel peccato? «No, sono più di cinquant’anni che non commettiam­o altro che peccati mortali».

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