Corriere della Sera - La Lettura
Non sparate sull’eurocentrismo
Dialoghi Jürgen Osterhammel, vincitore del premio Balzan, difende gli autori illuministi: «Studiarono l’Oriente senza pregiudizi e con vera passione»
Nel corso del Settecento Montesquieu, Voltaire, Gibbon, Herder e molti gesuiti guardarono con curiosità e interesse all’Oriente, senza arroganza, ma per conoscerlo meglio, togliendogli, se necessario, il velo fiabesco. Lo sottolinea Jürgen Osterhammel, storico tedesco appena insignito del prestigioso premio Balzan, nel suo libro Unfabling the East (Princeton University Press). Persino i cosiddetti viaggiatori della poltrona (Leibniz e altri che mai uscirono dall’Europa) intesero stabilire un dialogo profondo con l’altro, l’Asia, per trarne insegnamento in diversi ambiti, dalla politica al diritto, dalle lingue appena scoperte all’arte, alle religioni e alla moda. Una prospettiva che discute le critiche avanzate verso l’Illuminismo e l’Europa attraverso l’analisi di centinaia di fonti molto diverse al fine di verificare seriamente l’ipotesi. Abbiamo approfondito il tema con l’autore.
Nel suo libro, recentemente tradotto in inglese, a distanza di vent’anni dalla prima edizione tedesca, lei mostra come lo sguardo della cultura illuminista nei confronti dell’Asia fosse davvero aperto e non condiscendente. Dunque l’Europa del Settecento era meno eurocentrica di quanto si pensi?
«Difendo l’Illuminismo dalle accuse di essere stato condiscendente o persino razzista nei confronti del resto del mondo come sarebbe stata poi la cultura prevalente nell’Ottocento. L’esame delle opere sull’Asia di centinaia di viaggiatori e autori — e non soltanto dei grandi nomi — rivela una stupefacente ampiezza di interessi e di interrogativi rispetto alle popolazioni dell’Asia, da quelle dell’Impero ottomano al Giappone. Un desiderio di conoscere che non si rivolgeva solo alla religione e non si limitava a giudizi morali o estetici. Per esempio è superficiale ridurre al semplice contrasto tra sinofilia e sinofobia l’interesse europeo verso la Cina. Gli osservatori europei cercarono di cogliere e comprendere la specificità delle varie società asiatiche, studiando l’Asia in un quadro comparativo della natura umana e delle gerarchie sociali, di giustizia, politica e progresso storico. L’Asia era un argomento centrale in molti dibattiti europei».
La cultura dell’Ottocento rivelò un volto diverso. Lei evidenzia il cambiamento e lo pone in relazione ai processi interni alle diverse realtà europee e asiatiche. Da eurocentrismo inclusivo a quello esclusivo?
«Eurocentrismo è un concetto estremamente vago che abbraccia estremi come la violenza contro i non europei fino alla difesa pacifica dei valori europei. Tranne un numero esiguo di convertiti a religioni non cristiane, tutti gli europei del Settecento erano eurocentrici secondo i parametri della teoria post-coloniale di oggi. Trovo questo anacronistico e molto moralistico. Piuttosto dovremo distinguere tra tipi e gradi di eurocentrismo. Inclusivo significa sottolineare le analogie tra noi e loro e sostenere la visione di una integrazione finale. Esclusivo evidenzia le differenze e le gerarchie incolmabili, da cui l’Occidente esce sempre trionfante. Oggi l’eu-
rocentrismo esclusivo sta ricomparendo nelle spaventose forme del suprematismo bianco finora molto più presente in America (anche in quella del Sud) che in Europa. Eurocentrismo non può più quindi essere il termine appropriato».
Sotto traccia, il suo libro propone una revisione della teoria di Edward Said, autore del famoso libro «Orientalismo» sul rapporto degli europei con l’Asia e l’islam. A suo avviso, a distanza di 40 anni, quali sono i meriti e i limiti della sfida di Said?
«Edward Said, scomparso nel 2003, è stato un critico letterario e un teorico culturale. Io non lo sono, sono uno storico delle idee europee e mi sono occupato di imperi e relazioni internazionali. Non ho l’ambizione di rispondere a Said con una mia teoria. Quando nel 1978 pubblicò Orientalismo, Said fornì un’analisi brillante delle opere di studiosi orientalisti inglesi e francesi dell’Ottocento. Leggendo i loro lavori in controluce (o decostruendoli), Said mise in evidenza un repertorio dell’arroganza occidentale nei confronti del mondo islamico. Quando leggi la letteratura islamofobica attuale, resti colpito da quanto Said avesse ragione. Secondo me, il suo libro resta ancora essenziale a distanza di quarant’anni. Tuttavia, nelle mani dei seguaci di Said, il termine “orientalismo” si è trasformato da categoria di analisi in arma di condanna morale. Inoltre, gli interventi critici di Said sono stati fraintesi per diventare una teoria completa che dimostra l’incapacità degli occidentali di comprendere e rendere giustizia dell’altro, ossia da chi proviene da altri mondi culturali. Questo dogmatismo semplicistico è un errore denunciato dallo stesso Said: l’errore dell’essenzialismo, che significa attribuire caratteristiche immutabili a individui, gruppi sociali e perfino a intere civiltà».
Molto interessante è anche la questione femminile, punto distintivo tra Occidente e Oriente. Mi hanno colpito le osservazioni di lady Mary Wortley Montagu sull’harem: ribaltava lo stereotipo di reclusione e addirittura constatava una maggiore libertà rispetto alle donne europee. Come giudica, alla luce di quei precedenti, l’attuale questione del velo islamico?
«Come esponente di un’élite e a lungo residente in Turchia, lady Mary ebbe il vantaggio di osservare la vita delle donne in un Paese islamico da una posizione unica. Lei apparteneva a quel gruppo dei primi etnografi che sviluppavano una grande empatia con la società che li ospitava e possedevano le conoscenze necessarie per fare comparazioni tra Oriente e Occidente. La sua eredità è andata perduta e gli uomini europei indugiarono in ogni sorta di fantasie, in letteratura e nelle arti, sulla sessualità femminile in Oriente. Non c’erano donne con il velo nel Nord Europa nel Settecento. E in Turchia oggi, il velo non è la reliquia o l’emblema di una tradizione interrotta, ma è il sottoprodotto simbolico della reislamizzazione cominciata negli anni Ottanta».
L’11 settembre e la teoria della scontro di civiltà di Samuel Huntington hanno riproposto l’idea di un forte antagonismo tra Occidente e mondo islamico, che si riflette nelle polemiche sull’immigrazione in tutta Europa. È una tendenza che la preoccupa?
«Le teorie di Huntington sullo scontro di civiltà e sulla militanza islamica sono abbastanza superate e inutili. L’11 settembre non ha provocato un’intensificazione dell’immigrazione dal mondo islamico verso l’Europa, per non parlare degli Stati Uniti. Si deve ricordare che la grande maggioranza di coloro che sono arrivati dal Vicino e dal Medio Oriente degli ultimi anni non sono jihadisti assassini, ma persone in fuga da guerre civili, in alcuni casi loro stessi vittime del terrorismo islamista. Terrorismo e migrazione sono fenomeni diversi e non devono essere confusi».
Lei indica anche un’ipotesi di nuove relazioni dell’Europa con l’Asia come partner paritari, recuperando l’esperienza settecentesca in maniera proficua. In questo quadro come giudica l’emergere della Cina come potenza con ambizioni globali?
«L’epoca del dominio dell’Europa sull’Asia si è conclusa a partire dalla Seconda guerra mondiale: India e Pakistan conquistarono l’indipendenza nel 1947, l’Indonesia nel 1949, lo stesso anno in cui in Cina vinse Mao. Da allora la parità politica è stata sostanzialmente raggiunta, sebbene per molti decenni i Paesi asiatici, con la grande eccezione del Giappone, siano rimasti più poveri dell’Europa. L’ascesa della Cina non è un fatto nuovo, ma deve essere visto come il riemergere di una grande potenza tradizionale e di un’economia con enorme potenziale umano e materiale. Ciò che sorprende è la velocità con cui la ricchezza pubblica e quella privata stanno crescendo in Cina dagli anni Novanta. Già ora la Cina non ha bisogno di offerte europee di parità, poiché per molti aspetti è decisamente il partner più forte. L’Europa deve accettare l’ascesa della Cina come fatto compiuto e non ha alcun modo per ostacolare questo cammino come stanno cercando di fare gli Stati Uniti. D’altra parte l’attrattività — o il soft power — della Cina è limitata dal suo sistema politico autoritario, dal nazionalismo assertivo e dalla sua crescente mancanza di libertà culturale e accademica».