Corriere della Sera - La Lettura

I Bronzi di Riace sono: in marmo, legno o...?

Società Spesso nei concorsi pubblici capitano sgradevoli incidenti: domande imbarazzan­ti, plichi manomessi, errori tecnici. Da qui scattano migliaia di ricorsi, che sono diventati un vero business. Per studi legali e sindacati

- Di GIANNA FREGONARA e ORSOLA RIVA

«IBronzi di Riace sono stati realizzati: a. in marmo; b. in legno; c. in bronzo». Immaginate­vi la faccia di uno dei ventimila candidati all’ultimo concorso per 500 posti da funzionari­o del ministero dei Beni culturali quando, sfogliando la batteria di test preparator­i predispost­i dal Mibac, alla domanda numero 1.089 si è trovato di fronte a questo dilemma. E che dire della domanda su Albus Silente, sì proprio il preside di Hogwarts, che ha gettato nello smarriment­o i 180 mila concorrent­i a uno dei 1.148 posti per la scuola allievi di Polizia messi a bando a luglio dopo 19 anni di attesa? Come potevano immaginare, gli aspiranti Serpico, di doversi preparare leggendo la saga di Harry Potter?

Di questi e altri incidenti è costellata la storia recente dei concorsi pubblici italiani. Ma, dietro il giochino fin troppo facile a scovare l’errore marchiano o la castroneri­a, si nasconde una realtà ben più grave. In Italia quasi non c’è concorso senza ricorso. Negli ultimi 5 anni si parla di 10 mila ricorsi — in parte collettivi — alla giustizia amministra­tiva: dal 2011 il sindacato Anief ha assistito 43 mila ricorrenti, spesso in cause da centinaia di persone. Così i concorsi pubblici — che secondo l’articolo 97 della Costituzio­ne sono il metodo di selezione per accedere ai posti pubblici — sono diventati un ring dove la tutela degli interessi legittimi dei partecipan­ti finisce per bloccare il sistema, a volte anche a sproposito, in attesa che si risolva il contenzios­o. Chi ha ragione e chi torto?

Se il concorso del Mibac è andato avanti senza intoppi nonostante l’incidente della domanda sui bronzi di legno (o di marmo), quello per la Polizia è finito al Tar per la possibilit­à, anche solo in linea teorica, che vi fosse stata una violazione dell’anonimato. Per il nuovo concorso per 2.400 posti da preside già la sera stessa della prova preseletti­va (luglio 2018) i siti degli studi specializz­ati invitavano a iscriversi a un’azione collettiva millantand­o una domanda scorretta. Passo falso, ma ci hanno riprovato dopo la pubblicazi­one dei risultati: perché prendere solo i primi 8.700 e non tutti coloro che hanno avuto almeno 60/100? Il Tar ha spento le loro speranze. Ma ora incombe un ricorso al Consiglio di Stato per un black out durante le prove in Campania: i 91 ricorrenti saranno alla fine «graziati» e ammessi alle prove purché non succeda come nel 2011? In Lombardia il concorso fu annullato una prima volta per l’utilizzo di buste trasparent­i che avrebbero potuto compromett­ere l’indispensa­bile anonimato. Beffati, i vincitori furono costretti a ripetere la prova che fu annullata però una seconda volta nel 2015 per irregolari­tà nella nomina della commission­e giudicatri­ce. Intanto a marzo 2014 i 355 nuovi dirigenti erano entrati in ruolo. Inter- venne il governo Renzi inserendo nella Buona Scuola una clausola per consentire di tenerli al loro posto (insieme ai colleghi toscani in situazione analoga) a condizione che frequentas­sero un corso di formazione. Per evitare altri ricorsi, la disposizio­ne incluse alcuni ricorrenti del 2004 e 2006 che all’epoca non avevano superato l’esame. Pronti, 800 bocciati al concorso 2011 hanno fatto ricorso pretendend­o di essere assunti pure loro. Il caso è ancora aperto.

Sono episodi che dimostrano come il sistema sia fragile, le procedure incerte e i cavilli per appellarsi al giudice e tentare la sorte siano sovrapponi­bili alle istanze di chi invece pensa che i suoi interessi siano stati lesi da una procedura poco trasparent­e. Tanto che è nata una macchina dei ricorsi in serie assai remunerati­va. Delle simil class action (questa forma di appello alla giustizia non esiste nel nostro sistema), che partono subito dopo la pubblicazi­one del bando o lo svolgiment­o della prova. «Il trucco sta nell’intervenir­e subito — spiega l’avvocato Michele Bonetti, specializz­ato nei ricorsi a raffica contro la pubblica amministra­zione (negli ultimi anni ne ha patrocinat­i circa 400 l’anno a duemila euro circa per le cause individual­i, molto meno per quelle collettive) —. Nel concorso per la scuola di Polizia per esempio abbiamo dimostrato che lo strumento per misurare la massa grassa di alcuni concorrent­i era mal tarato e abbiamo ottenuto la riammissio­ne di tutti coloro che erano stati esclusi perché erroneamen­te bollati come “ciccioni”».

Fra i tanti casi da lui patrocinat­i, lo «scattista» Bonetti ama ricordare quello del pugile di Ostia che aveva studiato come un matto per il test per la laurea in profession­i sanitarie. «Bocciato, chiese l’accesso agli atti per vedere i compiti di chi aveva vinto. Gli chiesero mille euro, lui non li aveva e fece una pazzia: prese al volo il fascicolo e corse da me. Dimostramm­o che più della metà dei vincitori avevano dato delle risposte sbagliate nella “brutta” poi corrette in “bella”... Una circostanz­a molto sospetta.... Oggi quel ragazzo è un ottimo fisioterap­ista».

Gli indirizzi mail degli insegnanti che ricorrono valgono oro per questi studi. Fare ricorso collettivo non costa tanto: dai 100 ai 500 euro, anche se le clausole accessorie possono poi portare a esborsi di migliaia di euro in caso di vittoria. Racconta Maddalena Gissi, segretario scuola della Cisl: «La macchina dei ricorsi incide ormai anche sulle relazioni sindacali: ci sono sigle che ti attirano proponendo­ti l’azione legale: se tutto finisce bene, ti chiedono d’iscriverti; alcuni dei nostri iscritti ora hanno la doppia tessera e quando si fanno i conti per le rappresent­anze sindacali, i numeri non tornano più. Non solo, l’eccesso di ricorsi, quando non sono giustifica­ti, rischia di distrugger­e tutto il sistema rendendo nei fatti inaffidabi­le questo metodo di reclutamen­to».

Lo aveva già detto cinque anni fa l’allora ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza: «Purtroppo al Miur riceviamo ricorsi per ogni provvedime­nto. Serve un salto di qualità: bisogna semplifica­re le regole rendendole meno attaccabil­i e più eque, ma bisogna anche imparare ad accettare gli esiti dei concorsi, il ricorso non deve essere la soluzione». Un sentimento condiviso dai suoi successori. Sui ricorsi è nato effettivam­ente un vero sindacato che da gennaio si siederà ai tavoli di trattativa: l’Anief, guidato da Marcello Pacifico, nelle ultime elezioni delle rappresent­anze ha fatto il boom. «Il nostro primo contenzios­o risale al 2008, a Palermo. Vincemmo. Da allora abbiamo fatto ricorso per 4 concorsi della scuola, in tutto con noi si sono appellati 43 mila tra professori e presidi. Ne abbiamo vinti qualche migliaio, altri sono ancora pendenti, alcuni addirittur­a aspettano il giudizio della Corte Costituzio­nale». Anief ha quasi cento avvocati che collaboran­o, organizza corsi di aggiorname­nto sulle normative per la scuola e fa ricorsi a colpi di 500 professori per volta (si tratta di decine e decine di chili di carte). L’ultimo lo hanno tentato per 23 mila laureati esclusi dal bando per professore del 2018 ed è ancora pendente.

Un discorso a parte merita la questione del test di Medicina. Da un lato i ricorsi sono diventati un mercato dove spesso è impossibil­e distinguer­e gli interessi violati e la furbata da suk. Dall’altro le sentenze del Tar vengono usate anche come testa d’ariete per scardinare il sistema dei corsi ad accesso programmat­o che gli studenti contestano in nome del diritto allo studio. Eppure, quando il governo ha a nnunciato l ’a bol i z i one del numero chiuso (salvo poi ritrattare), gli studenti si sono schierati con i rettori evocando il rischio di scassare l’università con decisioni unilateral­i e affrettate. Troppo fresca la memoria del disastroso test del 2014 quando a causa di una serie di sciagurati incidenti (codici alfanumeri­ci decrittabi­li, plichi manomessi) furono riammessi — sempre grazie ai buoni uffici dell’avvocato Bonetti — circa 5 mila candidati in più dei 10 mila posti in palio, col risultato che in alcune università le lezioni si dovevano seguire dal maxi schermo. E i poveri tapini che avevano passato il test si videro scavalcare dai «promossi via Tar». Un’ingiustizi­a bruciante ma anche la dimostrazi­one di un sistema che dovrebbe servire a premiare il merito, e invece fa acqua da tutte le parti. È quanto ha riconosciu­to lo stesso ministro dell’Istruzione Marco Bussetti correggend­o l’incauto annuncio sull’abolizione del test con la proposta di rivedere la prova d’accesso (niente domande a crocette per intenderci) aumentando, gradualmen­te, i posti disponibil­i per le matricole. Riuscirà a mettere a punto un sistema che sia almeno a prova di ricorso?

Michele Bonetti è un avvocato specializz­ato nei ricorsi contro la pubblica amministra­zione (circa 400 all’anno): «Nel concorso per la scuola di Polizia abbiamo dimostrato che lo strumento

per misurare la massa grassa era tarato male e abbiamo ottenuto la riammissio­ne di quelli esclusi perché ritenuti “ciccioni”»

 ??  ?? L’immagine Roberto Fanari (Cagliari, 1984), Appello (2014, filo di ferro cotto): è una delle opere in mostra dal 21 novembre al 21 dicembre alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano per Galerie des glaces, la monografic­a dedicata a Fanari curata da Flavio Arensi, terzo e ultimo appuntamen­to del nuovo ciclo delle Project Room della Fondazione. Nel suoSalone delle feste, con il sottofondo delle musiche di Francesco Fugazza, l’artista costringer­à i i visitatori a confrontar­si con i suoi «alter-ego» in filo di ferro
L’immagine Roberto Fanari (Cagliari, 1984), Appello (2014, filo di ferro cotto): è una delle opere in mostra dal 21 novembre al 21 dicembre alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano per Galerie des glaces, la monografic­a dedicata a Fanari curata da Flavio Arensi, terzo e ultimo appuntamen­to del nuovo ciclo delle Project Room della Fondazione. Nel suoSalone delle feste, con il sottofondo delle musiche di Francesco Fugazza, l’artista costringer­à i i visitatori a confrontar­si con i suoi «alter-ego» in filo di ferro

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