Corriere della Sera - La Lettura
La miglior protagonista di Teresa resta Teresa
Mi era piaciuto molto La più amata di Teresa Ciabatti, il romanzo che precede ques to ( Matrigna, e di z i oni Solferino). Lo avevo trovato un capolavoro, morboso come una pratica di autolesionismo, sinistro come una messa nera, blasfemo come un comandamento alla rovescia: disonora il padre per onorarlo. Mi era piaciuto tutto di quel romanzo sospeso tra incubi alla Hitchcock e sogni alla Scott Fitzgerald. La location a Orbetello. Il personaggio del padre, il tenebroso Professore prima adorato e poi infamato dalla figlia protagonista, la più amata del titolo. Mi era piaciuta quest’ultima, la sua cattiveria, la sua infingardaggine, la sua disperazione. Mi aveva conquistato e turbato l’esercizio di autofiction estrema, il mettere in piazza la propria storia fino alla settima generazione (come negli anatemi biblici). Una esibizione così impudica da confondere il lettore sul falso e sul vero, sul reale e sull’immaginato. E, perdonate l’autocitazione, nel pezzo su La più amata avevo chiuso con questa definizione: «È una condanna all’estinzione di una gens, una maledizione urbi et orbi (et Orbetello), una damnatio memoriae». Una chiusura quasi in latino con la solennità che il libro meritava. Libro a cui, tra parentesi e passando su un piano di assai minore solennità, la maggioranza dei giurati al Premio Strega aveva preferito il mediocre Le otto montagne di Paolo Cognetti in una specie di contrapposizione tra diavolo (Ciabatti) e (finta) acqua santa (Cognetti). Verdetto che aveva confermato ai miei occhi il valore del romanzo, vidimato dall’expertise al contrario del Ninfeo di Villa Giulia.
Perciò ero un po’ preoccupato alla notizia dell’uscita di Matrigna. Come si fa a continuare a scrivere (e a vivere) dopo un romanzo come La più amata? Ed ero naturalmente anche incuriosito. Le bozze le ho spizzate come si fa con le carte da poker. Pura suspense. Ho visto subito, prima ancora dell’inizio della storia, una nota e una citazione. Benauguranti? Malauguranti? Non saprei dirlo, certamente molto ciabattiane. La nota si riferisce a un caso di cronaca che fece epoca, un lieto fine che non riesce a essere un lieto fine tale è il raccapriccio retrospettivo: il ritorno da rediviva di Natascha Kampusch, la bambina austriaca che fu sequestrata, abusata e dominata per otto anni da un uomo e riuscì incredibilmente a scamparla. La citazione è di Theodor W. Ador-
no («Un pazzo fa molti pazzi»), frase che compendia in cinque parole l’atmosfera di Matrigna: leggere i libri della Ciabatti è come entrare nei manicomi di una volta e vedere anime perse che vagano incessantemente, su e giù, silenziose o urlanti, chiuse in sé stesse, catafratte in una ossessione senza requie.
Ma eccoci all’incipit: «Era inverno quando mio fratello sparì». E poi: «La mamma mi aveva chiesto di tenerlo per mano». E poi: «Dunque è da questa mano che si è staccato. E dunque se avessi stretto più forte, se solo avessi stretto fino a fargli male pur di non perderlo in mezzo alla gente che spingeva, alla cascata di coriandoli, se solo io, Noemi, nove anni appena compiuti, avessi stretto fortissimo».
Il nuovo romanzo di Teresa Ciabatti racconta una perdita, ma soprattutto un senso di colpa. E comincia come una puntata di Chi l’ha visto? quando Federica Sciarelli comunica ai telespettatori i dati segnaletici dello scomparso. Biondissimo, occhi azzurri. Padre vigile del fuoco, mamma casalinga (quietamente inquieta o, se preferite, inquietamente quieta, ma questo la Sciarelli, per policy Rai, non lo direbbe). Così come non direbbe che i capelli biondi di Andrea, il bambino perduto, erano tinti, glieli aveva tinti la mamma, i suoi naturali erano castani. Castani come quelli di Noemi, la bistrattata sorella Noemi. E Noemi non era la sorella maggiore affettuosa, quella che nella drammaturgia di Chi l’ha visto? pronuncerebbe un appello commosso e commovente rivolto al fratellino rubato. No, Noemi provava invidia per la piccola star di casa, il cocco di mamma. «Se fossi stata sincera, alla domanda: sei gelosa di tuo fratello? Avrei risposto sì. Immensamente, con tutta me stessa, a poliziotti, mamma, papà, psicologi».
Teresa Ciabatti adora la televisione e la sua estetica, probabilmente stravede per Chi l’ha visto?. Così come adora sguazzare nella cultura del sospetto, l’unica cultura ormai di un Paese incolto: dopo il rapimento del bambino, «i sospetti ricaddero sui componenti della famiglia». Non siamo più a Chi l’ha visto?, siamo precipitati nella vociferazione stile web, dove la policy dei social impone malizia, odio, diffamazione. Per cui il padre pompiere è accusato di essere piromane (con logica stringente: perché proprio lui, guarda caso, si trova sempre nei pressi di un incendio?). E anche la zia, la sorella del padre, che ha cresciuto i bambini come una vicemamma (essendo la mamma una grande isterica, una depressa che passa le giornate buttata a letto), viene iscritta «nel registro degli indagati» (secondo il lessico familiare impostoci dai tg all’ora di cena).
Teresa Ciabatti è la scrittrice più consona a questo tempo di illazioni e dietrologie, ai quali nessuno sfugge, nemmeno i pompieri, la categoria dei buoni per antonomasia. E a questo tempo oppone, per legittima difesa, il sarcasmo. A un certo punto, nell’anamnesi del bambino Andrea si scopre che da piccolo gli era stata diagnosticata un’intolleranza alimentare, al latte vaccino per la precisione. Qui Teresa sferra la zampata e avverte: si tratta di latte vaccino «e non glutine, per fortuna, come a un certo punto era stato sospettato, Andrea non era celiaco!». (Ecco, di queste zampate ce ne voleva qualcuna in più).
In qualche modo anche dopo un rapimento la vita continua, il tempo passa. Non per tutti. Dice Noemi amaramente: «Ho vissuto, studiato, mi sono fatta una reputazione professionale, sono invecchiata, mentre mio fratello è rimasto a sei anni». Ma anche lei è rimasta intrappolata: «Ognuno di noi ha una successione di vite non vissute. E la mia era romantica come un film. Un’altra era un horror: in una cantina buia a tapparmi le orecchie, pareti che tremano, case che crollano». A differenza della Teresa di La più
amata, allevata come una principessa, Noemi è una ragazza che cerca normalità e, soprattutto, indipendenza. A quattro anni si lava i denti da sola, a cinque sa allacciarsi le scarpe, a otto anni impara a cucinare. Una precoce autonomia che è solo un modo di prepararsi alla morte della madre.
Come La più amata era una lotta contro il padre, Matrigna è, sin dal titolo, una lotta contro la madre. Chi è la madre di Noemi? È una che, alla morte del marito, prende a lavarsi continuamente, «in particolare mani e denti, fino a farsi sanguinare le gengive». Una che, terrorizzata dai tuoni, si infilava lei nel letto dei figli (di Andrea ovviamente) in cerca di protezione, e non viceversa. Una che, dopo la sparizione del bambino, lasciava accesa la luce della cucina «nel caso lui fosse tornato col buio». Una che dal suo letto di dolore «riusciva a tenere sotto scacco l’intera famiglia». Ma è, soprattutto, una che, come accade ai parenti delle vittime nei casi di cronaca con maggiore audience, è salita su un palco illuminato da riflettori a rivolgere strazianti appelli fissando la luce rossa delle telecamere. Poi di colpo (la cronaca ha la memoria corta), i riflettori si sono spenti e lei è uscita di scena per diventare «una morta che camminava sul ciglio della strada». Una volta, la storia della mamma di Noemi sarebbe finita così. Oggi no, è prevista la resurrezione virtuale. A un certo punto arrivano Facebook e WhatsApp, «e le luci si riaccendono»: la mamma di Noemi diventa una star del web. A questo servono i social, a rendere, a modo loro, eterno il quarto d’ora di celebrità di Warhol.
Ho fatto una lettura sleale, forse, del nuovo romanzo di Teresa Ciabatti. L’ho letto alla presenza fissa di un ingombrante convitato di pietra: il super romanzo precedente. E il romanzo del padre ha prevalso sul romanzo della madre. Nel primo, la scrittrice ha ricordato per inventare. In questo ha inventato per ricordare. Ma non si è messa in gioco, non ha scritto, contemporaneamente, a favore e contro sé stessa, che è la sua forza. È rimasta però fedele al luogo del delitto. A metà libro, Noemi immagina scenari di morte della madre. «Nella mia mente era già successo: un ladro le sparava. Un ubriaco la investiva. Un drogato le inferiva quarantasei coltellate, ma quarantasei coltellate non sono un raptus, piuttosto lo sfogo di un risentimento covato da tempo, chi dà quarantasei coltellate non può essere uno sconosciuto, dicevano in tv. L’assassino è in famiglia, dicevano». Il colpevole è uno di casa, lo dice il tg, okay. Ma il format di Teresa Ciabatti non è quello di Chi l’ha visto? o del Telegiorna
le. Il format di Teresa Ciabatti è Teresa Ciabatti stessa. In prima, e non per interposta, persona. La prossima volta torni a concederci il piacere (e il dispiacere) della sua presenza.
Il nuovo romanzo racconta un senso di colpa. E comincia come una puntata di «Chi l’ha visto?», quando Federica Sciarelli comunica i dati segnaletici dello scomparso
zio di certi non detti. L’attenzione, però, deve rimanere alta come in uno slalom sulla neve, quando saltare una porta significa non ritrovare più la via della discesa. E arrivati in fondo, al termine della storia, ti restano appiccicati addosso le emozioni, i vuoti, l’angoscia e i colori.
Sono importanti, i colori. Matrigna ha un colore metallico, simile all’effetto cromatico che si imposta con il cellulare. Ferma il fluire delle stagioni, il variare del clima. Ed è privo di odori. Non tira vento, neppure una brezza leggera, ed è come stare inchiodati a un autunno eterno. È questo che si prova imboccando la via del dolore di una famiglia a cavallo tra gli anni Novanta e gli anni Zero. Non si riesce a svicolare, e nel frattempo incombe la realtà, la presenza della televisione — vecchio e nuovo analgesico per la sofferenza — insieme all’avvento dei social, illusione ottica che crea finti compagni di viaggio e d’avventura, totem per la società venuta immediatamente dopo quella degli «sfiorati», che Sandro Veronesi ha descritto così bene.
Eppure Matrigna concede ristoro, qualche parentesi di speranza nella fissità dell’infinito autunno. E se si chiudono gli occhi, si ritrovano le tinte vivide, il vento che soffia, gli odori: «L’inutile istante di giovinezza di mia madre, lei che si passa lo smalto sulle unghie dei piedi, poi alza le gambe in aria, e dice, alzale anche tu. E i miei piedi all’altezza delle sue ginocchia — quando avrò le gambe come le tue, mamma?». Tutto questo appare indispensabile e sostiene il lettore per il tempo che serve.
In Matrigna Teresa c’è e non c’è, come nel suo ultimo lavoro finalista al Premio Strega: La più amata. Quel libro mi impressionò come l’Urlo di Munch. Era disperato, a tratti sguaiato nella sua forza prorompente. Era vero, e colpiva al cuore. Teresa Ciabatti aveva un disperato bisogno di apparire, di mostrarsi, di esagerare. Era egocentrica, sopra le righe, pazza e forse visionaria.
Noemi è l’opposto: è schiva, e non è mai «la più amata», è l’antitesi di chi si ribella oppure semplicemente è salda al punto da sapersi difendere, da sola, dalle proprie ossessioni senza chiedere aiuto a squarciagola.
Matrigna è la vera conferma di Ciabatti come scrittrice. Se La più amata comunicava in parte la sensazione che il fuoco narrativo si fosse consumato e il deposito di storie fosse ormai vuoto, se i mille giochi dell’autofiction di Teresa Ciabatti sembravano indicare il raggiungimento di un vertice, ma al tempo stesso la non ripetibilità di quel racconto unico perché agganciato a un nucleo (auto)biografico,
Matrigna smentisce queste impressioni e riapre i giochi.
Il romanzo racconta altri mondi e altre realtà toccando altre corde. Teresa riesce a evadere dalla prigione in cui con La più
amata rischiava di scivolare. Dunque, da lì evade: magari per scegliere nuove claustrofobie e un differente senso di oppressione. Ma quel tunnel diverso che Teresa ha imboccato diventa una conferma inattesa della capacità di narrare, quella conferma su cui anche io, che le sono amico, nutrivo riserve.
Ricordo un giorno di tanti anni fa. Eravamo entrambi poco più che adolescenti e ce ne andavamo in giro sulla mia 112 blu cobalto, che guidavo fresco di patente. Condividevamo la voglia di essere come gli altri e la sensazione di non riuscire a esserne all’altezza. C’era sempre qualcuno meglio di noi: lì fuori, accanto a noi. Nell’abitacolo l’autoradio suonava Rim
mel. Indugiavamo sulle ipoteche che «un futuro invadente» accende su certe esistenze, sull’obbligo soffocante di mostrarsi vincenti. E ci fermavamo sempre su quei versi: Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma uno zingaro è un trucco E un futuro invadente, fossi stato un po’ più giovane L’avrei distrutto con la fantasia L’avrei stracciato con la fantasia Forse Teresa Ciabatti ce l’ha fatta. Teresa Ciabatti c’è riuscita.
La scrittrice con «Matrigna» riesce a evadere dalla prigione del libro precedente. Magari per precipitare in altre prigioni e nuove claustrofobie