Corriere della Sera - La Lettura
L’ultimo dei simbolisti va al mare
La prima pubblicazione organica in italiano di Adriaan Roland Holst
Ci sono poeti che giungono da una distanza, non solo geografica o culturale, ma prima di tutto ideale: poeti che parlano da una sorta di condizione estraniata, separata e non per questo meno inerente al nostro intimo. Probabilmente appartiene a questa categoria l’olandese Adriaan Roland Holst (nipote della poetessa Henriette Roland Holst-van der Schalk), poeta longevo (Amsterdam, 1888 – Bergen, 1976) che ha attraversato buona parte del Novecento con la sua opera. Questa pare issarsi in una solitudine estrema. Da essa, dalla solitudine, l’opera prende forza e chiaroveggenza. Proprio la capacità di vedere è cercata dal poeta. Holst è allievo ideale di Yeats (autore che tra l’altro tradusse: in giovinezza Holst aveva studiato per qualche tempo a Oxford) ed è poeta di un simbolismo cifrato, nutrito di letture capitali, sulla linea che va da Hölderlin a Rilke, senza trascurare Mallarmé. Ciò che ci rappresenta è un tramonto, una caduta: non è difficile scorgere in ciò i segni, oltre che della cultura, della storia. Il capolavoro del poeta, Un inverno al mare, uscì nel 1937, nel clima della minaccia nazista. Proprio questa misteriosa operetta viene presentata al pubblico italiano insieme ad alcuni altri testi, in un’antologia che costituisce la prima pubblicazione organica dedicata al poeta nel nostro Paese ( Un inverno al mare e altre poesie, Raffaelli).
Nella raccolta-poemetto si parla di un’amata perduta. Che diventa anche subito, per trasposizione e cifra, la Elena della guerra di Troia (a cui poi è dedicato un altro componimento di Holst, Elena nello specchio, scritto tra 1918 e 1943): diviene anzi la bellezza stessa, che sembra fuggire ormai dall’Occidente. Il dialogo con l’immagine della scomparsa investe la for- ma del testo: costruito su una sequenza di ottave dallo schema rimico rimodulato, il poemetto si presenta come allusivo, sibillino. Il tempo di prima è il tempo mitico, della presenza divina, ora dispersa («l’ira sfrenata/ del mare abbandonato da Dio»); ritrovarne le tracce attraverso la memoria, la nostalgia, lo specchio (elemento ritornante nel libro) significa correre un rischio, cercare sé stessi: «Questo il luogo: la sfiducia/ snerva qui il coraggio/ di specchiarsi: in questa stretta/ valle della duna può succedere/ che uno incontri sé stesso,/ e si osservi, e debba leggere/ nell’altro sguardo. Questo posto/ freme di paura e timore».
Nelle fibre del discorso poetico è una civiltà a interrogarsi sulla sua destinazione. Sulla domanda, termina il poemetto. Poi, nei testi più tardi del poeta, è la disillusione a dominare, ma ancora in forme sonanti, araldiche. Un inverno al mare diviene
Marea d’inverno (titolo di un testo tratto da una raccolta del 1958) e il vuoto, la negazione di ogni possibile rispecchiamento (nel mito, nella bellezza, nell’altro) conducono a un riconoscimento estremo, eppure ancora pulsante di tragica bellezza: «Nessuno specchio più, e nessun tutto —/ soltanto ancora, mormorante, lutto».