Corriere della Sera - La Lettura
Jori riscrive Pinocchio. A mano
Le avventure e i vagabondaggi sono sempre quelli. Ma il lavoro che sarà presentato alla Galleria Mazzoli di Modena è una reinvenzione del classico di Collodi Trasposizione manuale e opera d’arte per raccontare da capo il burattino. «Una diavoleria magica»
Marcello Jori è un affabulatore. Senza mai nascondere un irrefrenabile narcisismo, ama parlare di sé, celebrare le proprie gesta, confessarsi, illudere, dissimulare, imbrogliare, mascherarsi, attirare su di sé l’attenzione. Ma soprattutto raccontare, mescolando episodi realmente accaduti e fantasticherie. Questo talento da cultore della parola è emerso nelle tante espe- rienze che Jori, nel corso del suo itinerario, ha attraversato. Impegnato a rilanciare la tradizione degli artisti totali del Rinascimento, erede di alcuni tra i protagonisti della stagione delle avanguardie (da Balla a Depero), Jori ha compiuto continue scorribande linguistiche, esplorando i territori della pittura e del fumetto, della letteratura e del design. Non un eclettico né un dilettante, ma un «artista intero» (come ama definirsi). Che si è servito, di volta in volta, di media diversi, di cui ha studiato le regole interne. Senza mai tradire il suo bisogno comunicativo originario: raccontare, appunto.
I suoi fumetti giovanili, le sue fotografie sperimentali, i suoi cicli pittorici, i suoi romanzi e finanche i suoi oggetti di design rimandano sempre a storie o a sottotesti impliciti, per offrirsi come complesse macchine retoriche. All’apparenza, Jori esplora geografie non ancora battute. In effetti, pur imboccando sen- tieri sempre diversi, non fa che riprendere le medesime ossessioni. Servendosi di pratiche non contigue, si propone «solo» di narrare: con le immagini, con le parole. Un’eccezione nel panorama contemporaneo, ricco di artisti che tendono a non scrivere o preferiscono abbandonarsi a teorizzazioni ermetiche.
Questo slancio da aedo postmoderno è affiorato sin dalle Predicazioni (2002), debitrici della lezione di William Blake: libri-opera scritti a mano, in copia unica; tentativo per reinventare il modello delle vite vasariane; viaggio attraverso le esistenze di artisti come Picasso e Warhol. Nella stessa costellazione poetica occorre iscrivere le tappe successive di un percorso originale, fondato sull’intreccio tra scrittura e immagini, tra verità storica e finzione: gli Albi dell’Avventura, la trilogia su Fontana, La Grande Jatte, La Città Meravigliosa degli artisti straordinari, infine La Storia dipinta dell’arte, libero, avvincente, folle e inatteso riattraversamento della storia dell’arte.
Tappa ulteriore di questo polittico in progress è l’omaggio a Le avventure di Pinocchio cui Jori da più di un anno si sta dedicando, sollecitato dal gallerista Emilio Mazzoli. Un progetto che verrà presentato il prossimo 27 ottobre in una mostra alla Galleria Mazzoli di Modena: una versione manoscritta e illustrata del romanzo che, rilegata a mano in cinque volumi, sarà esposta insieme con 25 opere di vario formato (ad acquerello e acrilico su carta e ad olio su tavola).
«Ho iniziato a possedere il libro scrivendolo, e i disegni colorati ad acrilici liquidi hanno cominciato a sgorgare dalle parole. Tutto si faceva da solo. Le immagini uscivano lì dove dovevano, e non finivano più. Io mi sono arreso all’appetito brutale del burattino e sono stato suo schiavo!», dice Jori. Il quale, forse sulle orme del memorabile Pinocchio: un libro
Questa rilettura è un atto d’amore verso il grande classico per bambini: diventerà anche un volume — dopo oltre un anno di lavoro — stampato in cinquecento copie numerate
parallelo di Manganelli (1977), qui mira a saldare fedeltà e infedeltà, per elaborare un ardito esercizio iconotestuale, in cui combina scritture e figure dipinte. Un avvincente storyboard, che mescola la tradizione degli affreschi epici del Trecento con le soluzioni della graphic novel e con certi artifici del cinema.
Nelle sue tavole, Jori trascrive manualmente la favola di Collodi: il suo è, innanzitutto, un atto d’amore nei confronti di un libro conosciuto da tutti, tradotto in ogni lingua. Un romanzo che ha affascinato e «interrogato» molti artisti del Novecento. Tra i primi a lasciarsene sedurre fu de Chirico, il quale, in alcuni appunti giovanili, non senza azzardo, accostò addirittura Pinocchio a Zarathustra: personaggi che esprimono il bisogno di riflettere sul doppio dell’essere e sulle forme inautentiche dell’esistenza: «Ricordo che dopo aver letto l’opera immortale di Nietzsche Così parlo Zarathustra, sentii in vari passaggi di questo libro un’impressione che avevo già provato, da bambino, nel leggere un libro italiano per l’infanzia che s’intitola Le avventure di
Pinocchio. Curiosa s omiglianza: ( . . . ) l’opera ha una stranezza che si avvicina alle strane sensazioni di un bambino».
Distante dalle illustrazioni «mimetiche» di Mazzanti (1883), di Chiostri (1901) e di Innocenti (1991) e anche dalle rivisitazioni sofisticate di Mattotti (1990) e di Scarabattolo (2009), Jori sembra guardare alle divagazioni deliranti di Schifano (1992), al fortunato sceneggiato televisivo diretto da Comencini per la Rai (1972) e, appunto, al Manganelli del «libro parallelo». Dà vita così a un disinvolto corpo a corpo con questo classico della letteratura: foresta di simboli esoterici e assurdi, galleria di falsificazioni, arsenale del fantasticare, continente di sogni e archetipi redentori, incantevole e inquietante Bil
dungsroman, burla che contiene anche suggerimenti sulle strategie per liberarci di noi stessi, della nostra natura, infrangendo i limiti che ci vincolano alla terra.
Nella sua riscrittura, Jori si comporta come un regista intento a trarre un film da un romanzo. Studia, analizza, interpreta, scompone, smonta, rimonta, amplia e dilata il soggetto letterario assunto. Lo riadatta. Lo personalizza. Lo continua. Lo reinventa. Lo riattiva. Ne estrae momenti privilegiati e passaggi decisivi, che restituisce con rara maestria pittorica, riuscendo a far sentire le porosità del legno di cui è fatto il «burattino utopista». Talvolta, se ne allontana, arricchendolo di rivelazioni (Mangiafuoco travestito da Mazzoli, il naso appuntito di Pinocchio confrontato con quello dipinto da de Dominicis in un suo quadro).
In particolare, Jori evoca la dimensione picaresca di quel libro di vagabondaggi, fatto di avventure, tra locande malfamate, sbirri e forche. Componendo una
clownerie giocosa, coloratissima, espressionista, vagamente felliniana, con personaggi dentro impaginazioni ben calibrate. Una «diavoleria magica» (come ama chiamarla) il cui infantile, ostinato e capriccioso protagonista — un essere subumano o postumano — «estratto» da Geppetto da un pezzo di legno è coinvolto in peripezie enigmatiche, sperimenta sé stesso come «titolare di una ilare e angosciosa deformità» (ancora Manganelli), avverte la propria identità come assurda, minacciata; incontra insidiose creature e mille metamorfosi; affronta aggressioni e «assalti pedagogici»; dialoga con il sedentario papà; si imbatte in conigli neri che trasportano una bara; cerca protezione nella Fata turchina; entra nel paese dei Balocchi; si inabissa nel ventre della balena. Il suo è un viaggio quasi dantesco, segnato da cadute e da rinascite. L’inferno. E il paradiso.
È sorprendente smarrirsi in questo circo visionario, il cui impresario sembra realizzare la tentazione di ogni bambino: dare un volto possibile alle figure, ai luoghi e alle situazioni che riempiono l’immortale capolavoro di Collodi. Perché, in fondo, è proprio questa una delle principali qualità di Pinocchio, dove, come ricordava Calvino, «ogni apparizione si presenta (...) con una forza visiva tale da non poter essere più dimenticata».