Corriere della Sera - La Lettura
Danzo con gli occhi, creo intimità
Ha allestito lo spettacolo dell’Olimpiade di Atene, è stato chiamato a lavorare nel teatro di Pina Bausch. Ora Dimitris Papaioannou porta al Lac di Lugano «The Great Tamer»
«Uso i miei occhi per la danza». Preferisce non etichettare il proprio lavoro — coreografia, teatro e arti visive — il greco Dimitris Papaioannou. In effetti, questo rabdomante dello sguardo, capace di costruire visioni in bilico tra mito e contemporaneità, si sfila da qualsiasi perimetro troppo angusto di generi, creando un arco estetico che unisce tradizione e sperimentazione, in una dimensione onirica spaesante ed emotiva, quanto netta nella messa a fuoco. Come nel suo The Great Tamer, spettacolo di inquieta bellezza concepito ad Atene nel 2017 che, dopo il debutto italiano a Napoli Teatro Festival e la recente tappa a Torinodanza, giunge ora al Lac di Lugano il 24 ottobre in un lungo tour internazionale. Dagli esordi come pittore, l’astro dell’eclettico Dimitris è allo zenith nel firmamento del teatrodanza, segno che il tempo — tema al centro del suo «Grande domatore» insieme all’idea di viaggio esistenziale alla ricerca dell’oro nascosto in noi — è dalla sua parte.
Quanto la classicità può ancora nutrire l’arte contemporanea e che ruolo sta giocando, in questo, la Grecia?
«Ogni periodo del passato alimenta la contemporaneità, dunque anche la classicità. Non riesco, però, a quantificare l’influenza della Grecia di oggi, non avendo percezione del suo impatto sul resto del mondo. Ma sono felice di sapere che il mio amico regista Yorgos Lanthimos viene premiato per il suo cinema, che i coreografi Laskaridis e Papadopoulos stanno lavorando anche all’estero».
In maggio ha presentato «Seit sie» («Da quando lei») per il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, primo autore invitato per una creazione a serata intera. Una commissione che vale come una medaglia d’oro, data la devozione per la compianta Pina. Come ha vissuto questa esperienza e che cosa pensa dell’eredità Bausch?
«Firmare la prima creazione dopo la morte di Pina è stato una specie di incubo: provare con i suoi specialissimi artisti è stato ancora più duro, anche se con alcuni è stato molto creativo, emozionante e di grande valore per me. Il pubblico ha risposto con calore, un’accoglienza più generosa di quanto mi aspettassi».
I danzatori non erano aperti al suo mondo?
«Al contrario, erano estremamente desiderosi di intraprendere un nuovo percorso, ma è stato difficile per loro av- vicinarsi a me, e per me accostarmi a loro. È naturale».
Quando muore un coreografo si pone il problema della cristallizzazione del suo repertorio. Qual è la sua posizione circa il culto della memoria di un autore?
«Sento che la mia arte muore di continuo, come si dissolve tutta la living art. Quanto alla compagnia di Wuppertal, i suoi danzatori sono come gli apostoli, lottano per conservare il mondo di una grande artista come Pina. Prima o poi questo finirà. Ritiratasi la vecchia generazione, sarà difficile man
tenere in vita lo spiri- to dell’opera di Bausch. Puoi conservarne la forma, ma l’anima è volatile. Si può tentare di preservarlo attraverso la dimensione creativa».
Una compagnia priva di una grande guida è come un tempio senz’anima?
«In parte sì, però possono esserci molte guide in una compagnia. Certo è un processo delicato ma per creazioni contemporanee che non hanno un vocabolario codificato come il balletto classico, lo sforzo presente è necessario, se la compagnia sopravvive al proprio autore».
Come il tempo sta lavorando dentro di lei e la sua arte?
«In questo periodo mi sento ottimista, mi pare che il tempo stia procedendo bene. Ora sono capace di prendermi meno sul serio, di capire di più la gente e di fare più esperienza del mondo intorno a me».
Parlavamo di guide: considera suoi maestri i pittori Tsarouchis, Kounellis, il regista Wilson?
«Nella mia famiglia artistica immaginaria, Bausch è stata la madre-guida, Wilson il padre. Perciò è stato molto emozionante che Wilson sia arrivato, a sorpresa, a Wuppertal, per vedere Seit sie. Considero mie guide Pina e Bob perché in loro ho visto l’esempio di una vita protesa verso il miglior risultato creativo, rendendo possibile l’inimmaginabile».
Il corpo per lei è una scultura in movimento?
«Non parto da una specifica idea di corpo: scaturisce da una serie di situazioni fisiche interessanti, da una galleria di immagini che scelgo in modo molto selettivo».
È passato attraverso periodi molto diversi, dal disegno al «butoh». Quale l’ha marcata di più?
«Il butoh è stata una rivelazione per me. Mi ha introdotto alla danza giapponese Ellen Stewart, storica fondatrice del La MaMa, il teatro sperimentale di New York: andammo a vedere uno spettacolo di Min Tanaka, maestro di butoh, rimasi folgorato. Ho poi studiato con un discepolo americano di Tanaka, scoprendo un potere nel mio corpo che mai avrei immaginato perché non ho una formazione completa di tecnica contemporanea».
Come organizza la percezione dello spazio e la fruizione della danza in contesti diversi, dalle cerimonie dell’Olimpiade di Atene nel 2004 a spettacoli più intimi come «Primal Matter»?
«Cerco di applicare gli stessi principi, dividendo, definendo e occupando gli spazi in storie di energie architettoniche quando uso una diagonale, in un momento corale o un assolo. Cerco di creare intimità anche nella grande scala di uno show di massa».
Vede una missione nella danza?
«Difficile da dire. Per quanto riguarda la mia personale e insignificante vita, mi piace pensare che la mia missione sia assecondare il mio talento. È un gioco mentale che applico alla mia esistenza quotidiana, trovare ciò che nutre la mia ispirazione, qualsiasi cosa io faccia, sia che dipinga, che corra o ami. Quanto al fine ultimo del mio lavoro, credo che l’arte sia un elemento fondante e indispensabile per l’evoluzione e il benessere umani».
L’esperienza a Wuppertal «Firmare la prima creazione dopo la morte di Pina è stato un incubo: provare con i suoi artisti è stato ancora più duro»
L’esperienza d’ogni giorno «Cerco di applicare gli stessi principi, dividendo, definendo e occupando gli spazi. La missione: assecondare il mio talento»