Corriere della Sera - La Lettura
24 ore di ordinaria violenza 10 ragazzini uccisi È l’America a mano armata
Negli Usa aumentano le morti di minorenni, neri soprattutto, colpiti dai proiettili. Gary Younge racconta questa «strage silenziosa»
Dieci bambini americani vengono uccisi in media ogni giorno da un colpo d’arma da fuoco. Di uno di questi giorni — il 23 novembre 2013 — Gary Younge, giornalista e scrittore, editorialista del «Guardian», ha dato conto in Un altro giorno di morte in America. 24 ore, 10
proiettili, 10 ragazzi (Add Editore). Quella scattata da Younge è «l’istantanea di una società che rende queste morti possibili, e la cui cultura politica è del tutto incapace di creare un contesto in grado di evitarle», il ritratto di un Paese indifferente alla routine di morte che, attraverso la violenza delle armi, colpisce quotidianamente i minori (in media, in tutto, ogni giorno i morti sono 96). I dieci capitoli in cui il volume è suddiviso prendono il nome dai ragazzi dei quali il giornalista ha indagato le morti: Jaiden, Kenneth, Stanley, Pedro, Tyler, Edwin, Samuel, Tyshon, Gary e Gustin. Sette neri, due ispanici e un bianco. Dice Younge a «la Lettura»: «I bambini e gli uomini neri costituiscono il 6 per cento della popolazione Usa di sesso maschile ma il 70 per cento delle morti avvenute quel giorno». Rispetto alla statistica del 2013, quando la media di ragazzini ammazzati ogni giorno era di 6,75, la curva è in ascesa: «Dagli otto morti al giorno in media del 2015, siamo passati a nove nel 2016», afferma Younge. Un altro giorno di
morte in America non è però un saggio sul controllo delle armi da fuoco, ma un libro, precisa il reporter, «che ho potuto scrivere perché questo controllo manca». «L’America ha un’ossessione per il Secondo emendamento, che protegge il diritto di portare armi. Questo fondamento culturale è un modo per la lobby delle armi e, in particolare, per la National Rifle Association, di mantenere la sua presa. E per alimentare un clima di paura: la paura dell’intruso, degli stupratori, degli assassini, dei fuorilegge. Ma conta di più il Secondo emendamento o le vite di tutti i bambini uccisi?». Il punto, spiega il giornalista, è che «queste morti sono una questione sociale. Sono avvenute in un momento di inasprimento della polarizzazione razziale. E anche se il mio non è un libro sulla questione razziale, ha a che fare con essa perché, quando si parla di America, la questione razziale è imprescindibile. Qualsiasi storia si voglia raccontare sull’America è intrinsecamente connessa a questo tema».
Le vittime raccontate nel libro appartenevano tutte a famiglie del ceto operaio. «La povertà e le disuguaglianze favoriscono la disperazione: un’istruzione migliore, posti di lavoro con retribuzioni sufficienti per vivere, più servizi per i giovani contribuirebbero a creare un clima in cui queste morti sarebbero meno probabili». E se è vero che non sono né il razzismo né la povertà a mettere le armi in mano agli individui, né a premere il grilletto, non si può negare, riflette Younge, «che questi sono i fattori che determinano le condizioni di alienazione, assenza di legge e ambivalenza in cui le armi vengono usate e le morti per arma da fuoco ignorate. Ogni individuo deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni, ma anche le società devono farlo». Gli americani, sotto- linea, «non sono un popolo più violento di altri. Ciò che rende più letale la società statunitense è la diffusione delle armi: nessun’altra società occidentale avrebbe potuto essere teatro per questo libro».
Le morti quotidiane di ragazzi come Jaiden, Kenneth o Stanley non fanno notizia. Né per la polizia né per la stampa. Sono, dice Younge, «un monotono stillicidio, un brusio di fondo così debole da permettere al Paese di andare avanti indisturbato». L’attenzione della nazione si ridesta solo con le sparatorie di massa come quella di Sandy Hook (venti bambini tra i 6 e i 7 anni, e sei adulti dello staff scolastico, uccisi il 14 dicembre 2012 dal ventenne Adam Lanza nella scuola elementare di Newtown, Connecticut). Younge giustappone l’indifferenza della società al dolore delle famiglie, che cercano disperatamente di dare un senso alla loro perdita. E al senso di colpa. «Il malinteso comune che i bambini neri muoiano a un ritmo sproporzionato — sostiene — si fonda sul mito secondo cui i padri e le madri neri non si preoccupano abbastanza dei loro figli per proteggerli, o che ci sia qualche “deficit” nella loro genitorialità. Il punto è che tutti vogliono una risposta facile per risolvere un problema complesso. Un vero cambiamento strutturale richiederebbe un reale rigore intellettuale oltre allo smantellamento dello status quo. In America, le comunità svantaggiate sono bloccate in “ghetti” dominati da violenza, povertà e pochissime, se non nessuna, opportunità di uscita».
Il 23 novembre si colloca tra l’omicidio di Trayvon Martin (il diciassettenne afroamericano ucciso con un colpo di pistola dal “sorvegliante” civile di un villaggio residenziale della Florida, il 26 febbraio 2012) e la nascita dell’hashtag #BlackLivesMatter da cui ha poi avuto origine l’omonimo movimento. «E anche se il mio libro — conclude Younge — non tratta le “morti di Stato”, i casi di cittadini uccisi dall’autorità statale, esso è connesso a quello che voglio dire: la vita nera è importante, deve essere importante, mentre vedo che l’America cerca di ignorare questa verità. Il pensiero comune, spesso, è che questi ragazzi abbiano avuto ciò che meritavano perché facevano parte di una gang, o erano in procinto di fare qualcosa di sbagliato o avrebbero comunque a loro volta ucciso. Dopo l’omicidio di Samuel, 16 anni, centrato da un proiettile mentre camminava con un amico in strada, a Dallas, un giornalista ha terminato l’articolo per il suo giornale con una domanda: dove erano i genitori? Beh, io da quei genitori sono andato, sono andato a parlare con la madre, che fino a sei minuti prima lo aveva visto giocare a carte in casa. E sa una cosa? L’aspetto più tragico emerso dalle mie ricerche è che ogni genitore di un giovane nero con cui ho parlato aveva messo in conto l’eventualità che una cosa simile potesse accadere. E che molti di loro avevano dedicato le proprie capacità genitoriali a evitare esattamente che questa eventualità potesse davvero accadere. Il mio libro vuole raccontare questi ragazzi per quello che sono stati e per quello che avrebbero potuto essere».