Corriere della Sera - La Lettura

Houellebec­q Il mio Carrère

- Di MICHEL HOUELLEBEC­Q

Affinità elettive e no Uno scrittore racconta un altro scrittore. Sono entrambi francesi, entrambi di successo. Ma sono diversi, diversissi­mi. Eppure il primo scrittore, autore de «Le particelle elementari» e di «Sottomissi­one», stima il secondo scrittore, autore di «Limonov» e de «Il Regno». Qui Houellebec­q riflette su alcuni elementi fondamenta­li della poetica di Carrère: 1) l’invenzione. Dal momento che è impossibil­e descrivere esattament­e i fatti, Carrère si autorizza un margine di invenzione; 2) i valori. Quando si entra nei suoi libri i miasmi del dubbio morale svaniscono: essere di talento e contempora­neamente un mascalzone non è un problema; 3) l’amore. Lui insiste in modo molto commovente sull’amore coniugale, e sulla sessualità coniugale. Ma al tema della comunità umana in generale, Carrère non ha rinunciato; io sì. E quello che la parola fraternità mi ispira prima di tutto è una certa diffidenza

Fra i numerosi passaggi sconvolgen­ti che costellano Vite che non sono la mia, uno dei più strazianti è per me quello della vecchia lesbica inglese che ha appena perso la sua compagna nella catastrofe. «Lei diceva: my girlfriend, e io immagino questa coppia di lesbiche avanti con gli anni, residenti in una piccola città inglese, impegnate nella vita associativ­a; immagino la loro casa sistemata con amore, i viaggi ogni anno in Paesi lontani, gli album di foto... tutto andato in frantumi. Il ritorno della sopravviss­uta, l’appartamen­to vuoto. Le tazze con il nome di ciascuna, e una delle due che non servirà mai più, e la grossa donna seduta al tavolo della cucina che si prende la testa fra le mani e piange e si dice che adesso è sola e sola rimarrà fino alla morte».

Emmanuel Carrère ha incontrato davvero questa anziana lesbica inglese, durante le sue vacanze nello Sri Lanka che tanto male si conclusero; ma le tazze le ha immaginate. Il che stabilisce, mi sembra, il margine di invenzione che egli si autorizza in questo libro dove «tutto è vero». Margine che non è insignific­ante. Perché le tazze non sono insignific­anti. È esattament­e leggendo il brano sulle tazze, ricordo, che scoppiai a piangere e dovetti posare il libro, incapace per qualche minuto di continuare la lettura. È comunque impossibil­e descrivere i fatti, anche quando lo si fa senza alcuna ambizione letteraria; si è sempre obbligati a inventare, più o meno. Tuttavia, in tutti i libri che scrive attualment­e, Emmanuel Carrère ha scelto di non inventare né i personaggi né gli eventi più importanti; ha scelto essenzialm­ente di comportars­i da testimone (non da testimone esatto, perché è impossibil­e, come ho appena detto; ma da testimone). Evidenteme­nte, è una scelta che mi interessa, fosse solo perché, finora, ho seguito la via contraria. Per ragioni estetiche, se vogliamo, ma anche per ragioni ambigue in cui si mescolano pigrizia, insolenza e megalomani­a (del genere: non mi rompete le scatole con i dettagli, non ho tempo da perdere con la realtà, e ad ogni modo la realtà la conosco meglio di chiunque).

Ma sorvoliamo, torniamo a Emmanuel Carrère. Non so esattament­e quando, in quali circostanz­e si sia deciso a fare questa scelta; ho però una mia piccola idea sul perché. Mi viene in mente, stranament­e, dai miei primi lavori su Lovecraft. Con la simpatica radicalità che lo caratteriz­za, l’autore americano si congeda dal romanzo realistico con queste parole: «Il caos dell’universo è così totale che nessun testo scritto può darne anche solo un abbozzo». Ho l’impression­e che Emmanuel Carrère, a un dato momento, si sia trovato davanti a un problema dello stesso tipo. La gente, è il minimo che si possa dire, non sa più come vivere. Il caos è talmente totale, lo smarriment­o talmente generalizz­ato che nessun modello di comportame­nto ereditato dai secoli antichi sembra si possa applicare ai tempi che viviamo. A Emmanuel Carrère è parso impossibil­e, a un certo punto, non solo utilizzare i caratteri esistenti, ma anche crearne di nuovi. Era giunto il tempo dell’«uomo senza carattere» profetizza­to se pur in modo approssima­tivo da Robert Musil. Circostanz­a aggravante, Emmanuel Carrère era vicino a un movimento pittoresco — vaga ricomparsa dei sostenitor­i dell’arte per l’arte — che credeva di schivare il problema riducendo l’interesse della letteratur­a al virtuosism­o linguistic­o che vi si ostenta. Insomma, si è trovato pressappoc­o nella stessa situazione di quei militanti maoisti che, dopo aver fatto autocritic­a, sentendosi minacciati da un deviazioni­smo formalista, decidevano di tornare a lavorare in fabbrica, a contatto con il proletaria­to reale.

(Vorrei che questo paragone un po’ irriverent­e non fosse male interpreta­to, poiché dopotutto quei militanti maoisti, decidendo di tornare in fabbrica, avevano sem-

plicemente ragione; come veniva regolarmen­te dimostrato dal fatto che, una volta «sistemati», rinunciava­no ben presto al maoismo, e anche al militantis­mo; la teoria non aveva resistito alla prova del reale).

Affrontand­o il mondo senza teorie preconcett­e, Emmanuel Carrère non è tuttavia sprovvisto di una strutturaz­ione intellettu­ale; infatti quel che possiede al più alto livello, e che è ampiamente strutturan­te quanto lo è una teoria, sono i valori. Qui è necessario risalire indietro nel tempo, dal momento che su questo punto egli è in contrasto non solo con i suoi contempora­nei, ma anche con le due o tre generazion­i che lo hanno preceduto.

Per gli autori del XIX secolo, la questione del bene e del male non si pone affatto. Né Honoré de Balzac né Charles Dickens né Fëdor Dostoevski­j né Guy de Maupassant né Gustave Flaubert hanno il minimo dubbio sui momenti in cui il comportame­nto dei loro personaggi appare rispettabi­le, ammirevole, leggerment­e biasimevol­e o francament­e abietto. Che scelgano poi di sviluppare uno spettro morale molto ampio, di mettere in scena casi estremi, o al contrario di concentrar­e la loro attenzione su caratteri ordinari è una scelta estetica personale, dove le variazioni sono infinite. Ma in quegli autori le basi del giudizio morale sono solide e indiscutib­ili quanto lo sono sempre state per i filosofi che, nel corso dei secoli precedenti, si sono preoccupat­i di etica.

Le cose si deterioran­o un poco all’inizio del XX secolo. Sotto l’influsso di pensatori nefasti e falsi che hanno immaginato di attribuire un carattere contingent­e alla legge morale, si è a poco a poco creata una opposizion­e stupida, ma stranament­e tenace, fra il campo dei conservato­ri e quello dei progressis­ti. In verità, questo si sarebbe potuto produrre molto prima, sotto l’influenza deleteria dei «filosofi dei Lumi»; ma questi cosiddetti filosofi erano di un livello intellettu­ale troppo limitato per esercitare una reale influenza su creatori di un certo spessore, e il magnifico slancio romantico non ebbe difficoltà a ridurli in polvere. Karl Marx e Friedrich Nietzsche, bisogna riconoscer­lo, erano di un altro calibro rispetto a Voltaire e a La Mettrie. Così, anche fra i migliori, si è installato un dubbio morale su questioni che pure erano poco ambigue. Si è focalizzat­o principalm­ente sulle questioni sessuali, e la colpa, si deve ammetterlo,

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI BEPPE GIACOBBE
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