Corriere della Sera - La Lettura
Houellebecq Il mio Carrère
Affinità elettive e no Uno scrittore racconta un altro scrittore. Sono entrambi francesi, entrambi di successo. Ma sono diversi, diversissimi. Eppure il primo scrittore, autore de «Le particelle elementari» e di «Sottomissione», stima il secondo scrittore, autore di «Limonov» e de «Il Regno». Qui Houellebecq riflette su alcuni elementi fondamentali della poetica di Carrère: 1) l’invenzione. Dal momento che è impossibile descrivere esattamente i fatti, Carrère si autorizza un margine di invenzione; 2) i valori. Quando si entra nei suoi libri i miasmi del dubbio morale svaniscono: essere di talento e contemporaneamente un mascalzone non è un problema; 3) l’amore. Lui insiste in modo molto commovente sull’amore coniugale, e sulla sessualità coniugale. Ma al tema della comunità umana in generale, Carrère non ha rinunciato; io sì. E quello che la parola fraternità mi ispira prima di tutto è una certa diffidenza
Fra i numerosi passaggi sconvolgenti che costellano Vite che non sono la mia, uno dei più strazianti è per me quello della vecchia lesbica inglese che ha appena perso la sua compagna nella catastrofe. «Lei diceva: my girlfriend, e io immagino questa coppia di lesbiche avanti con gli anni, residenti in una piccola città inglese, impegnate nella vita associativa; immagino la loro casa sistemata con amore, i viaggi ogni anno in Paesi lontani, gli album di foto... tutto andato in frantumi. Il ritorno della sopravvissuta, l’appartamento vuoto. Le tazze con il nome di ciascuna, e una delle due che non servirà mai più, e la grossa donna seduta al tavolo della cucina che si prende la testa fra le mani e piange e si dice che adesso è sola e sola rimarrà fino alla morte».
Emmanuel Carrère ha incontrato davvero questa anziana lesbica inglese, durante le sue vacanze nello Sri Lanka che tanto male si conclusero; ma le tazze le ha immaginate. Il che stabilisce, mi sembra, il margine di invenzione che egli si autorizza in questo libro dove «tutto è vero». Margine che non è insignificante. Perché le tazze non sono insignificanti. È esattamente leggendo il brano sulle tazze, ricordo, che scoppiai a piangere e dovetti posare il libro, incapace per qualche minuto di continuare la lettura. È comunque impossibile descrivere i fatti, anche quando lo si fa senza alcuna ambizione letteraria; si è sempre obbligati a inventare, più o meno. Tuttavia, in tutti i libri che scrive attualmente, Emmanuel Carrère ha scelto di non inventare né i personaggi né gli eventi più importanti; ha scelto essenzialmente di comportarsi da testimone (non da testimone esatto, perché è impossibile, come ho appena detto; ma da testimone). Evidentemente, è una scelta che mi interessa, fosse solo perché, finora, ho seguito la via contraria. Per ragioni estetiche, se vogliamo, ma anche per ragioni ambigue in cui si mescolano pigrizia, insolenza e megalomania (del genere: non mi rompete le scatole con i dettagli, non ho tempo da perdere con la realtà, e ad ogni modo la realtà la conosco meglio di chiunque).
Ma sorvoliamo, torniamo a Emmanuel Carrère. Non so esattamente quando, in quali circostanze si sia deciso a fare questa scelta; ho però una mia piccola idea sul perché. Mi viene in mente, stranamente, dai miei primi lavori su Lovecraft. Con la simpatica radicalità che lo caratterizza, l’autore americano si congeda dal romanzo realistico con queste parole: «Il caos dell’universo è così totale che nessun testo scritto può darne anche solo un abbozzo». Ho l’impressione che Emmanuel Carrère, a un dato momento, si sia trovato davanti a un problema dello stesso tipo. La gente, è il minimo che si possa dire, non sa più come vivere. Il caos è talmente totale, lo smarrimento talmente generalizzato che nessun modello di comportamento ereditato dai secoli antichi sembra si possa applicare ai tempi che viviamo. A Emmanuel Carrère è parso impossibile, a un certo punto, non solo utilizzare i caratteri esistenti, ma anche crearne di nuovi. Era giunto il tempo dell’«uomo senza carattere» profetizzato se pur in modo approssimativo da Robert Musil. Circostanza aggravante, Emmanuel Carrère era vicino a un movimento pittoresco — vaga ricomparsa dei sostenitori dell’arte per l’arte — che credeva di schivare il problema riducendo l’interesse della letteratura al virtuosismo linguistico che vi si ostenta. Insomma, si è trovato pressappoco nella stessa situazione di quei militanti maoisti che, dopo aver fatto autocritica, sentendosi minacciati da un deviazionismo formalista, decidevano di tornare a lavorare in fabbrica, a contatto con il proletariato reale.
(Vorrei che questo paragone un po’ irriverente non fosse male interpretato, poiché dopotutto quei militanti maoisti, decidendo di tornare in fabbrica, avevano sem-
plicemente ragione; come veniva regolarmente dimostrato dal fatto che, una volta «sistemati», rinunciavano ben presto al maoismo, e anche al militantismo; la teoria non aveva resistito alla prova del reale).
Affrontando il mondo senza teorie preconcette, Emmanuel Carrère non è tuttavia sprovvisto di una strutturazione intellettuale; infatti quel che possiede al più alto livello, e che è ampiamente strutturante quanto lo è una teoria, sono i valori. Qui è necessario risalire indietro nel tempo, dal momento che su questo punto egli è in contrasto non solo con i suoi contemporanei, ma anche con le due o tre generazioni che lo hanno preceduto.
Per gli autori del XIX secolo, la questione del bene e del male non si pone affatto. Né Honoré de Balzac né Charles Dickens né Fëdor Dostoevskij né Guy de Maupassant né Gustave Flaubert hanno il minimo dubbio sui momenti in cui il comportamento dei loro personaggi appare rispettabile, ammirevole, leggermente biasimevole o francamente abietto. Che scelgano poi di sviluppare uno spettro morale molto ampio, di mettere in scena casi estremi, o al contrario di concentrare la loro attenzione su caratteri ordinari è una scelta estetica personale, dove le variazioni sono infinite. Ma in quegli autori le basi del giudizio morale sono solide e indiscutibili quanto lo sono sempre state per i filosofi che, nel corso dei secoli precedenti, si sono preoccupati di etica.
Le cose si deteriorano un poco all’inizio del XX secolo. Sotto l’influsso di pensatori nefasti e falsi che hanno immaginato di attribuire un carattere contingente alla legge morale, si è a poco a poco creata una opposizione stupida, ma stranamente tenace, fra il campo dei conservatori e quello dei progressisti. In verità, questo si sarebbe potuto produrre molto prima, sotto l’influenza deleteria dei «filosofi dei Lumi»; ma questi cosiddetti filosofi erano di un livello intellettuale troppo limitato per esercitare una reale influenza su creatori di un certo spessore, e il magnifico slancio romantico non ebbe difficoltà a ridurli in polvere. Karl Marx e Friedrich Nietzsche, bisogna riconoscerlo, erano di un altro calibro rispetto a Voltaire e a La Mettrie. Così, anche fra i migliori, si è installato un dubbio morale su questioni che pure erano poco ambigue. Si è focalizzato principalmente sulle questioni sessuali, e la colpa, si deve ammetterlo,