Corriere della Sera - La Lettura
Baricco e i giovani d’oggi «Più aggressività, dai...»
Alessandro Baricco ha scritto «The Game» sulla rivoluzione digitale. «Viviamo in una civiltà che ha ritmo e spettacolarità dei videogiochi», spiega. Nata per superare i disastri del Novecento, non è senza rischi. «Deve farsi avanti, a guidarla, una intell
Wiki pedia, Facebook, Skype, You Tube, Spotify, Netflix, Twitter, YouPorn, Airbnb, iPhone, Instagram, Uber, WhatsApp, Tinder, Tripadvisor, Pinterest. Nel nuovo saggio sulla rivoluzione digitale, The Game (Einaudi Stile libero), Alessandro Baricco stila una «lista di cose che vent’anni fa non esistevano e adesso sì». Un elenco che mostra quanto ormai quella rivoluzione sia «andata ad annidarsi nella normalità». Non più territorio di un manipolo di
barbari, com’erano considerati i suoi attori ancora una decina d’anni fa, quando lo stesso Baricco pubblicò l’omonimo libro. Ma una nuova civiltà, già sotto i nostri polpastrelli: non priva di opportunità, eppure condizionata da errori e paure che l’autore usa (anche) come bussola per orientarsi in un viaggio — nel libro ci sono le mappe—dalle origini dell’ insurrezione tecnologica a oggi. Paure, o piuttosto in questo caso «mancanza di coraggio», pure da parte di coloro, i più giovani, che invece avrebbero gli strumenti per indirizzare e governare il mondo «leggero, veloce, imma- teriale» in cui adesso viviamo. «Queste nuove intelligenze devono uscire fuori», esorta Baricco, ospite a Milano de «la Lettura».
Che cos’è il «Game» citato nel titolo?
«Il Novecento è finito e una delle prime cose utili da fare è dare un nome alla nuova civiltà in cui ci troviamo. Chiamarla The Game mi è sembrato un modo per ricordarne alcune caratteristiche: il ritmo, la dinamicità, la spettacolarità che vengono dall’imprinting dei videogiochi. È lì la matrice. Lo pensava anche Stewart Brand, tra le menti della controcultura californiana che diede vita all’insurrezione digitale. Lui, il primo a coniare l’espressione
personal computer, disse che il videogioco Spacewar!, nato nel 1962, “era la sfera di cristallo in cui potevi leggere dove ci avrebbe portato l’uso dei computer”».
Brand fa parte di un’intelligenza nuova di cui la rivoluzione tecnologica è figlia. Invece siamo soliti vedere questa rivoluzione come una causa e domandarci quali effetti avrà sulla nostra intelligenza. Lei lo chiama «errore di prospettiva».
«La rivoluzione tecnologica è già l’effetto di una svolta mentale: il rifiuto del Novecento. È l’insieme degli strumenti di cui un certo tipo di umanità si è dotata per fare inversione di rotta rispetto ai disastri del secolo scorso, verso un mondo migliore. Il Game, nato appunto nell’habitat specifico della controcultura californiana, c’entra con gli hippie ei beat, con la protesta contro la guerra del Vietnam e i nerd sepolti negli uffici. Ha una matrice insurrezionale. Ora siamo influenzati da Zuckerberg e Bezos, ma l’inizio fu libertario. Anche in Europa, Tim Berners-Lee, l’inglese che inventò il World Wide Web lavorando al Cern di Ginevra, non lo vendette ma lo regalò al mondo».
L’insurrezione digitale, lei scrive, sapeva da che cosa fuggire ma non aveva un nuovo «progetto di uomo». Un nodo cruciale alla luce delle conseguenze che viviamo oggi.
«C’erano delle linee di fuga, ma non si sapeva come si sarebbe vissuto dopo. Anche se alcuni come Brand e Steve Jobs un’intuizione di quello che stavano combinando ce l’avevano. Si voleva rompere con i sistemi bloccati. C’erano sintomi indipendentemente dal digitale: i supermercati al posto del piccolo negozio o il