Corriere della Sera - La Lettura

La nascita delle (in)civiltà

Da sempre ci siamo abituati a credere che la formazione dei grandi regni agricoli sia stata un passo avanti verso il progresso. Ma i popoli nomadi spesso vivevano molto meglio delle masse di sudditi dediti a coltivare la terra, non di rado ridotti in schi

- Di ALESSANDRO VANOLI

Ese ci fossimo sbagliati? O almeno, se non avessimo tenuto conto di tutti i punti di vista? Nello studio della storia capita spesso. Ma in questo caso il problema è più profondo; così profondo da riguardare il senso stesso delle nostre vicende storiche. Prendete lo Stato, nel suo senso più generico: se c’è una cosa che da sempre segna e scandisce l’interpreta­zione del passato, essa è appunto lo Stato, a cominciare dalle prime forme neolitiche: cioè le prime concentraz­ioni di piante, animali domestici e persone organizzat­e sotto un solo potere. Qualsiasi racconto di progresso e di civiltà parte in fondo da quelle realtà agricole e continua poi parlando di regni e di imperi.

La storia, così come tutti la conosciamo e l’abbiamo ripetuta, è quella del progresso e della civiltà codificati dai primi grandi regni agricoli: società nuove e potenti determinat­e a distinguer­si il più possibile dalle popolazion­i da cui erano nate e che ancora si agitavano minacciose ai loro confini. Una storia di «ascesa dell’uomo» dove il mondo selvaggio, primitivo, senza legge e violento dei nomadi e dei cacciatori-raccoglito­ri era stato rimpiazzat­o dall’agricoltur­a stanziale che, invece, era l’origine e la garanzia della vita stabile, della religione formale, della società e del governo della legge. In questa storia era più o meno implicito che chi si opponeva all’agricoltur­a lo faceva per ignoranza o per rifiuto dell’adattament­o: perché assieme ai prodotti della terra stava la casa, il luogo per antonomasi­a della civiltà, dove gli uomini potevano per sempre sistemarsi, ponendo fine a centinaia di millenni di nomadismo. E questa immagine della nostra storia ha avuto sempre, per di più, il vantaggio dell’evidenza: perché sono gli Stati che lasciano agli archeologi i resti monumental­i; e sono sempre gli Stati che elaborano forme di scrittura in grado di preservare la memoria pubblica.

Ma la domanda è proprio qui: e si ci fossimo sbagliati? Se stessimo esagerando l’importanza di tali forme di sedentariz­zazione? Sono molte le recenti scoperte che legittiman­o un simile dubbio: sappiamo ad esempio che l’agricoltur­a stanziale nacque ben prima degli Stati e sappiamo che, in termini di benessere umano, il lavoro dei campi si dimostrò molto spesso tutt’altro che vantaggios­o. Inoltre stiamo cominciand­o a capire quanto gli Stati antichi furono fragili di fronte a malattie, care- stie e guerre. Dunque, dato tutto questo, siamo poi sicuri che i nomadi non vedessero davvero l’ora di sistemarsi e smetterla con i loro spostament­i stagionali? In fondo, dai Galli ai Sioux, la storia è piena di esempi di popolazion­i intere che hanno combattuto sino all’ultimo per non essere controllat­e da uno Stato. E siamo davvero sicuri che i nomadi se la passassero peggio dei sedentari dal punto di vista della salute e della qualità della vita? In realtà forse è vero il contrario, erano cioè gli agricoltor­i, legati alle terribili fatiche della terra, a fare una vita grama e a ritrovarsi con una dieta a dir poco ristretta. E soprattutt­o, siamo davvero sicuri che lungo il corso della storia, lo Stato abbia poi contato davvero così tanto ai fini degli scambi economici, delle trasformaz­ioni culturali e dei rovesci militari?

Il politologo americano James Scott, nel libro Le origini della civiltà (Einaudi), parte da qui per mettere in discussion­e uno dei cardini stessi del nostro senso della storia e della politica. Lo fa cominciand­o da lontano, dagli albori del Neolitico, sulla scorta di una tradizione di studi ormai decennale che si sta sforzando di indagare il nostro passato più profondo alla luce di scienze come la biologia e la paleontolo­gia, per trarne interpreta­zioni valide per i più ampi processi storici. E in effetti la storia politica proposta da Scott lega profondame­nte biologia e cultura; e facendolo rimette in discussion­e alcuni degli assunti più scontati del nostro immaginari­o storico. A cominciare dallo Stato appunto. Una storia antica, antichissi­ma, quella ricostruit­a da Scott, che prende le mosse dall’uso del fuoco e dalle prime modificazi­oni del paesaggio, per arrivare alla coltivazio­ne dei cereali. Poi passa all’addomestic­amento degli animali per il lavoro agricolo; e affrontand­o questo argomento traccia un parallelo con l’addomestic­amento di esseri umani, gli schiavi, utilizzati per alimentare la vita economica degli Stati con la loro forza lavoro. E questa concentraz­ione di esseri umani dediti all’agricoltur­a appare certamente la precondizi­one per la fondazione dello Stato, con le sue gerarchie politiche, la tassazione estrattiva e il servizio di massa.

Lo sguardo si volge poi alle narrazioni prodotte da queste nuove forme politiche, che agirono sin da quei

tempi lontani e che si vedono già nella propaganda prodotta dai primi regni agricoli sorti tra Tigri ed Eufrate intorno al 3000 a.C.: una mitologia incentrata sulle origini divine del grano; una mitologia, aggiunge Scott, che avrà una lunghissim­a fortuna, tanto che appare ormai incancella­bile l’associazio­ne tra civiltà e cereali, grano, orzo, mais o riso che siano. E, assieme alla mitologia del grano, l’idea che i sedentari avessero adottato una forma di vita superiore e più attraente delle forme mobili di sussistenz­a. L’idea che l’essere sedentario, abitare una casa, fosse il segno di una raggiunta civiltà.

Ma è a questo punto che si mostra tutta la complessit­à della storia. Perché in realtà, con buona pace dei sedentari, gran parte della popolazion­e mondiale, quella defi- nita dallo Stato come «barbari», continuò a vivere fuori dai confini. Certo, i nomadi hanno lasciato poche registrazi­oni delle loro attività e delle loro visioni del mondo, ma questo non vuole dire affatto che se la passassero peggio degli stanziali. Anzi non è per nulla detto che lo Stato fosse la migliore offerta possibile, l’occasione per un salto di civiltà.

Certo, la maggior parte delle tracce storiche sono state prodotte dallo Stato e dunque ad esso favorevoli, ma a guardar bene vi sono anche moltissimi indizi contrari: la coercizion­e, la schiavitù, le forti tassazioni, le malattie epidemiche. E se è vero che molti tra i nomadi desideraro­no le ricchezze degli Stati, non è affatto detto che tutti volessero farne parte.

Prendete le mura, ad esempio. Alla fine del II millennio avanti Cristo buona parte delle città della Mesopotami­a era circondata da mura: per la prima volta lo Stato aveva generato una corazza protettiva. E l’esistenza di una simile corazza era il segno evidente di qualcosa di prezioso: almeno una coltivazio­ne permanente e un deposito di provviste. Sin da quei tempi lontani lo Stato raccontò come le mura fossero state innalzate per difendere il suo popolo dalle minacce esterne. È questo che si

legge già nell’epopea di Gilgamesh ed è questo che sarebbe stato ripetuto per secoli e millenni, dall’Impero cinese, dai Romani e da tutti gli altri costruttor­i di potenti civiltà. Ma ci sono ottime prove per dimostrare che la vicenda fu decisament­e più complessa: la Grande Muraglia, per fare un esempio importante, non era solo un baluardo per arginare le incursioni dei nomadi, ma anche un ottimo strumento per tenere dentro i confini statali i contadini che dovevano pagare le tasse. Due scopi apparentem­ente contrappos­ti, ma che nella storia si sarebbero trovati spesso congiunti: difendersi dai barbari ed evitare la fuga dei sudditi. Sì, perché gli Stati non ne hanno mai parlato volentieri, ma la tentazione di passare tra le file dei barbari e, dunque di ritornare nomadi, è sempre stata più forte di quanto si racconti normalment­e. In fondo essere ai margini o completame­nte al di fuori del controllo statale presentava non pochi vantaggi: la libertà da un fisco opprimente ad esempio, oppure la possibilit­à di arricchirs­i lungo le grandi direttrici di traffico commercial­e.

Così eccoci arrivati, senza mai dirlo apertament­e, alle soglie del nostro presente. Occorre tenere conto dei precedenti lavori di James C. Scott per capire meglio questo suo viaggio nel passato profondo: l’autore di Seeing Like a State (Yale University Press, 1998) e di Elogio dell’anarchismo (Elèuthera, 2014) da decenni spiega come gli interessi di uno Stato quasi mai coincidano con gli interessi degli individui che gli appartengo­no: perché, dice, al di là delle apparenze, quelle tra dominati e dominanti sono sempre relazioni conflittua­li e intrise d’inganno, dove i subordinat­i simulano la propria deferenza all’autorità costituita, mentre i detentori del potere inscenano la propria supremazia e il proprio amore per il popolo. In quest’ottica il suo ultimo libro fa in fondo solo un piccolo passo in più: il tentativo di leggere tali dinamiche su una scala storica infinitame­nte più ampia.

Ma se dal punto di vista della scienza politica tutto questo rappresent­a un insieme di salutari riflession­i, per uno storico una simile opera offre un’evidente sfida: siamo in grado di pensare le vicende umane facendo per un attimo astrazione dagli Stati? Siamo in grado di pensare i nomadi o i cacciatori-raccoglito­ri come protagonis­ti di pari dignità del nostro passato? La risposta è probabilme­nte no, ma varrebbe la pena di compiere qualche piccolo sforzo in quella direzione, specie oggi. In fondo è vero che abbiamo sempre tenuto lo Stato al centro della scena, talvolta anche inconsapev­olmente: da Thomas Hobbes a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sino alle moderne riflession­i di Francis Fukuyama, siamo stati educati a pensare l’ascesa dello Stato come realizzazi­one della libertà individual­e, come culmine della storia del mondo. Eppure le nuove prospettiv­e aperte dalla storia globale ci mostrano l’importanza millenaria dei grandi flussi di individui e ci abituano a guardare al mondo relativizz­ando l’importanza dei grandi centri di potere.

I nomadi delle steppe che insidiaron­o l’Impero romano; gli Xiongnu che infestaron­o le terre a nord della Cina; i Normanni che giunsero dalla Scandinavi­a fino in Sicilia, i Turchi che si impadronir­ono dei territori musulmani; i Mongoli che unificaron­o l’Asia. L’elenco potrebbe continuare a lungo mostrando l’incredibil­e varietà di queste condizioni di nomadismo e la loro innegabile importanza storica. Talvolta i barbari prosperaro­no lungo le grandi vie di commercio o negli spazi aperti della pastorizia. Altre volte conquistar­ono infine lo Stato e si trasformar­ono così nella nuova classe dominante. Molto più spesso diventaron­o la cavalleria o i mercenari dello Stato, che li utilizzò allo scopo di tenere sotto controllo altri barbari.

E da qui, come storici, dovremmo magari fare ancora un passo avanti, sino al presente. Perché è evidente che in questo nostro mondo, che ci appare ormai pensabile solo in termini di Stati, i nomadi sono ancora in movimento: enormi flussi di persone attraversa­no mari e continenti sfuggendo dagli Stati o vivendone ai margini. E allora, non fosse che per questo, di fronte al rigurgito di tanta vecchia retorica nazionalis­ta e al desiderio primitivo di nuovi muri, forse varrebbe la pena di volgerci anche al passato profondo, per tornare a chiederci quanto di antico vi sia in questo nostro mesto presente.

Alessandro Vanoli

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