Corriere della Sera - La Lettura
Il prigioniero di Giulio Chemeri
Il vento si alza intorno alla panchina su cui Laura ed Emiliano sono ancora seduti. Tocca a lei dire: «Raccontami». L’altro parla di Giulio, che entra nella vita della gente come una bomba a infiniti megatoni. «Solo dopo capisci che sei il personaggio di
Il vento si alzò all’improvviso. Fu strano, perché fino a quel mo- mento nulla si muoveva e nemmeno l’aria, come se tutto trat- tenesse il fiato per ascoltare quello che non si erano ancora detti, e chissà se quelle labbra avrebbero mai detto.
Fu un vento trasversale, di quelli che soltanto i marinai riconoscono fiutando il nulla, e le persone normali nemmeno capiscono bene da dove vengano e dove vadano, non i luoghi di origine e quelli di destinazione ma proprio la direzione; e le persone normali nemmeno avrebbero saputo riconoscere qual era il Nord e quale l’Est, dalla panchina dei giardini da dove arrivavano le urla dei bambini che giocavano a pallone, e loro due stavano zitti a fissare il vuoto, separati dalle stampelle di lui.
Laura aveva chiamato, e lei doveva fare la partita. Emiliano stava in difesa, sotto la bandiera del dolore fisico che da lei era venuto, questo si doveva pur sempre ricordare, e nonostante nessuno al mondo lo capisse o l’avesse capito lui sì, che capiva il motivo. E il meraviglioso paradosso della situazione era che lui, Emiliano, la vittima, il ferito, il martire con le stampelle che era stato sotto vetro tra la vita e la morte era l’unico che avrebbe saputo spiegare il perché, per filo e per segno. Forse meglio di Laura stessa.
Il pallone rotolò lento, vicino a loro. L’istinto di calciarlo di nuovo verso il pianeta da cui proveniva lo ebbe, ma rinunciò; e lo sguardo del bambino sudato che arrivò di corsa era di vago rimprovero. Ma come fai, si leggeva in quegli occhi? Ti arriva un pallone a un centimetro dal piede, e non lo calci? Sei anormale, amico. Poi il bambino vide le stampelle e cancellò il rim- provero dagli occhi, volando via come un piccione che non trova più briciole.
«Il pallone» disse Emiliano. Lo disse nel vento strano a mezza voce, per cui l’incongruenza della parola alle orecchie di Laura la rese ancora meno comprensibile. «Che?», chiese. «Il pallone» ripeté lui, a voce appena più alta e senza distogliere lo sguardo dalla siepe di fronte a lui che rabbrividiva inquieta nel vento. «Alla fine è quello il letto dove volevi andare tu e non sai se ci sei andata o no, quello di tuo padre. Il pallone era il letto del mio, la passione per questa puttanata di gioco. È cominciata là, per me. Il pallone che era tutto per lui e niente per me. Li hai visti gli occhi di quel bambino, sì?».
Per una qualche assurda magia, Laura capiva tutto quello che Emiliano diceva. Il ragazzo con cui non aveva mai parlato odiandolo ugualmente, l’unico essere vivente al quale avesse usato consapevole violenza, quello che da lei non avrebbe potuto essere più distante per cultura, per censo, per abitudini. Emiliano, che era lì senza paura nonostante lei lo avesse quasi ucciso, era limpido e trasparente come il proverbiale laghetto di montagna per lei, che non capiva mai nessuno. E che da nessuno era mai capita.
«Ce l’aveva con te, perché non hai dato un calcio al pallone. E quindi è dovuto correre fin qua a prenderlo. E tu hai visto com’era, quel bambino?». Emiliano guardò da lontano, stringendo gli occhi nel vento. «Quello grasso. È quello grasso». Laura rise, amara. Era bella quando rideva, glielo dicevano tutti. Un allargarsi delle labbra, una specie di raggio di luce. E una risata sgangherata e contagiosa, di quelle che nei salotti fanno alzare qualche sopracciglio e fanno sentire a casa, spazzando il disagio come quel vento spazzava le idee.
«Quello grasso, sì. Ti dico una cosa di lui: corre quando gioca, perché è grato che lo facciano giocare. Magari il pallone è suo, altrimenti sarebbe fuori. E quando scelgono le squadre lui è l’ultimo a essere scelto, anche se è il primo ad arrivare, anche se ha il completino e le scarpe più belli e costosi. Sempre l’ultimo». Emiliano si strinse nelle spalle: «E allora?». «E allora se lo fai correre fuori dal gioco poi perde la forza, e fa ancora più schifo a tutti. Per questo ti ha guardato così: un tuo calcio a quel pallone lo salvava da questa rincorsa. Poi però ha visto le stampelle e ha pensato ah, ecco, anche tu sei alla
fine un povero disgraziato come il sottoscritto. Ritiro l’occhiataccia». Il viso affilato si voltò a mezzo, senza arrivare a fissarla: «Non ti pare di esagerare con quest’analisi così profonda? È un cazzo di bambino che gioca a pallone ai giardinetti, tutto qui. Non vedi come ride?». Lei disse, quieta: «Certo che ride. Più forte degli altri, ride. Perché spera che nessuno si annoi e dica andiamocene, ragazzi, meglio un videogioco, che palle ’sta partita. E per lui è l’unico momento in cui si sente del gruppo, invece». Emiliano disse: «Senti, me lo vuoi dire come mai mi hai cercato? Perché francamente più di tanto non lo capisco».
Fu la volta di Laura di stringersi nelle spalle. Il vento rinforzò:
«Perché siamo uguali. Tuo padre, mio padre. Il mondo, e restarne fuori. E Giulio, naturalmente».
«Senti, io di Giulio mi devo liberare, a parte il fatto che con ogni probabilità lo ha già fatto lui con me. Avrei una vita da vivere, giacché l’ho incredibilmente riavuta in regalo dopo il tuo tentativo di risolvermi il problema in altra forma, e vorrei fare in modo che non sia una merda. Quindi, se possiamo evitare di parlarne sarebbe meglio, non ti pare?». Di nuovo la risata contagiosa: «Ah, sì? Ma torniamo al punto di partenza, mio caro. Io ti ho chiamato, certo: ma tu ci sei venuto. E uno che la vita se la vuole vivere su basi nuove, eliminando retaggi e cicatrici del passato, a incontrare l’aguzzina che per poco non ti toglieva di mezzo non ci va. E allora, come la tua razionale mente di aspirante fisico comprende benissimo, mi devi le stesse spiegazioni che ti devo io. Per cui la domanda non è una domanda, ma un invito: raccontami».
Il ragazzo stavolta la guardò direttamente negli occhi, ed era la prima volta da sempre, alla fine di una tortuosa strada che li aveva visti correre vertiginosamente verso lo stesso traguardo su due binari paralleli.
I quattro occhi si incatenarono ed entrambi persero il fiato. Raccontami. Come fosse facile.
«Ma secondo te l’amore è lo stesso per tutti oppure ognuno ha il suo?».
Laura rifletté, per nulla sorpresa da quella risposta che era una domanda. E d’altra parte nemmeno la domanda era una domanda: raccontami. E lui stava raccontando.
«Credo che ognuno abbia il suo. Il che naturalmente non vieta che per due sia lo stesso».
L’esplicito riferimento al rapporto che entrambi avevano con Giulio, e al contenuto profondo e sentimentale dello stesso, era un’esca ma anche una confessione. Emiliano disse: «Egoismo. Supremo egoismo. Ecco che cos’è l’amore. Poi possiamo indorarlo, magnificarlo, metterci i confetti o i fiorellini, ma sempre puro egoismo è. Io voglio te, anche se non sono il meglio che tu puoi avere. Voglio te, e disperatamente cerco di convincerti che non esiste di più, che ti farò felice. Voglio te. E quando ti ho avuto, sono prontissimo a gettarti via».
La ragazza fece un’espressione amara, e con quel volto rotondo dai lineamenti dolci riuscì a sembrare una bambina scontenta.
«Mamma mia, che luogo comune. Come se andasse sempre così. Guarda che succede pure che chi viene gettato via non aspetti altro. Che il coraggio di tagliare ce l’abbia uno solo, ma che la consapevolezza che sia necessario ce l’abbiano tutti e due».
Il vento soffiò forte come per vendetta, e stettero zitti per quasi un minuto approfittando per riflettere. Fu Emiliano a parlare per primo:
«Lui, sai, Giulio. È come una bomba, nella vita della gente. Arriva e poi niente è come prima, anche se poi alla fine è uno che sta zitto, per la maggior parte del tempo, e sorride. Una bomba di infiniti megatoni. Niente rimane in piedi, se non macerie».
Laura fissò il vento sotto forma di foglie che si alzavano senza cadere. Raccontami, aveva chiesto. E lui stava raccontando. Il ragazzo continuò: «Non è questione di etichette, sai. Il sesso è bello, ti fa sentire chi sei, ti rasserena. Nessuno pretende che tu dia un calcio a quel dannato pallone, anzi, la tua stessa pelle diventa bellissima, il campo da gioco che mai hai avuto. Non che sia mai un fine, è chiaro. Ma è bellissimo che sei tu, nient’altro che chi vuoi essere, dall’inizio alla fine».
Laura ascoltava, attenta.
«Solo che poi, ed è quella la vera esplosione della bomba, cominci a sentirti fuori posto dovunque. Perché una volta che fingi, fingi: ma se c’è un posto nel mondo, due occhi in cui sei tu, e non solo sei tu ma sei anche bello, diventa difficile tornare a essere la merda che tutti gli altri vedono. A cominciare da tuo padre, ovviamente».
Laura si sentiva come se qualcuno le stesse tagliando il cuore in lunghe strisce rosse, sanguinanti e dolenti. Raccontami, aveva detto. L’aveva voluto lei.
«Capisci dopo, che sei stato colpito. Capisci dopo, che sei il personaggio di un romanzo a puntate, qualche volta ci sei e qualche volta no, e tra una puntata e l’altra te ne stai col fiato sospeso aspettando che lui ti tiri fuori dal congelatore e ti faccia sentire per un attimo, solo per un attimo, te stesso. Andresti a supplicarlo, a cercarlo mille volte o un milione di volte perché ti faccia sentire vivo almeno un’altra volta». Laura ebbe un altro lungo brivido. «Ma capisci a un certo punto che il tuo romanzo è finito, perché tra un frammento di vita e un altro passa sempre più tempo. E cominci a cercare la vita altrove, solo che non la trovi perché a parità di contenitore non puoi cambiare la quantità del contenuto. A meno che». La ragazza pendeva dalle labbra di lui, disperata. «A meno che?», chiese. Emiliano sorrise all’improvviso. Era un sorriso sghembo e lungo, come un taglio in una tela. Una rasoiata in mezzo al pomeriggio, senza tener conto del vento.
«Mi hai chiesto perché sono venuto. Anzi, mi hai detto: io ti ho chiamato, ma tu ci sei venuto. Il motivo è quello: che io, grazie a te, posso adesso fare a meno di lui».
Continuava a fissare affascinata quel sorriso inatteso, come se temesse da un momento all’altro di essere inghiottita ma, al tempo stesso, non avesse forza per allontanarsene. Lui continuò: «Mi hai detto: raccontami. E io ti racconto delle ore in cui sentivo, senza avere la forza di muovermi, la gente attorno a me. Mio padre, i medici, gli infermieri. Ti racconto del non voler vivere ma del corpo che restava testardo, aggrappato al respiro. Ti racconto di mio nonno morto, in piedi vicino al letto in attesa di portarmi via. Ti racconto di mia madre che nemmeno ricordo, di tutti i compagni di scuola che ho avuto. Ti racconto perfino del pallone di quel bambino, dei mille, centomila palloni che non ho raccolto. Ti racconto di tutto questo, ma non di Giulio. E sai perché?». Laura disse, in un soffio inudibile nel vento: «Perché non c’era». Emiliano annuì, e il sorriso all’improvviso sembrò feroce: «Perché non c’era, sì. Ero quasi morto, e nemmeno mi sarebbe dispiaciuto, ma ero libero. Tu mi avevi liberato. E il fatto che, una volta tornato dalla morte, lui non mi abbia cercato è la conferma che la bomba da centomila megatoni che mi ero costruito e fatto scoppiare in mano non mi aveva ucciso. Per cui sai perché sono qui, finalmente? Sai perché aspettavo che tu mi chiamassi?». Laura stava a bocca aperta, in attesa. «Per ringraziarti, sì. Perché adesso so che era Giulio il motivo per il quale la mia vita restava in attesa. Perché l’amore è diverso per tutti, ma il mio era una prigione senza finestre, con la porta aperta. Una prigione in cui, a intervalli regolari, mi andavo a rinchiudere. Una maledetta prigione con dentro il sole».
Laura pensò che se mai aveva invidiato qualcuno nella vita non erano state le sorelle, bionde e sottili e bellissime; né la madre, che conosceva le carezze del padre che tanto aveva amato e avrebbe amato; né quei bambini che giocavano felici urlando nel vento, e che giocavano in fretta perché da un momento all’altro qualcuno sarebbe arrivato per farli smettere, o le luci sarebbero scomparse nel vento.
Invidiava quel ragazzo povero e malmesso, che forse mai più avrebbe camminato spedito, che non si poteva permettere un viaggio o una pizza, che aveva una famiglia costituita da un solo uomo, mezzo fallito. Lo invidiava perché era libero. Mentre formulava questo pensiero, arrivò un messaggio. Nel silenzio improvviso del vento che era caduto, arrivò un messaggio. Nella sera che arrivava promettendo e minacciando, arrivò un messaggio.
Il messaggio diceva: Amore mio, vieni da me. Corri da me. Perché senza di te non sono niente. Giulio. Il messaggio arrivò sul telefono di Emiliano. ( fine della quindicesima puntata)