Corriere della Sera - La Lettura
La tragedia splatter del socio di Shakespeare
Rappresentazioni «La tragedia del vendicatore» è un testo che sembra in bilico tra omaggio, interpretazione degenerata o parodia del modello più famoso. Lo si vede bene quando il protagonista si presenta con un teschio in mano: appare pretestuoso e a trat
Quattro secoli di oblio. Ecco la sorte che ha dovuto scontare lo spettro di Thomas Middleton — drammaturgo inglese di età giacomiana, amico e collaboratore di Shakespeare. Acclamato in vita, su di lui si è abbattuta la scure implacabile della damnatio memoriae. È una cosa triste. Un artista lavora, si fa il mazzo, lotta contro la censura, la maldicenza, l’invidia dei colleghi, contro il sospetto di essere un mediocre e un impostore… Lo fa per sbarcare il lunario, certo, ma anche perché in un luminoso recesso della coscienza coltiva l’illusione di lasciare ai posteri una piccola scia di sé (la migliore forse). E qual è il risarcimento per tanta abnegazione? Essere seppelliti, dimenticati, assistere (si fa per dire) all’espropriazione delle proprie opere migliori. Questo il destino postumo di Thomas Middleton. Non a caso, Thomas Middleton, drammaturgo giacomiano (Carocci editore) di Daniela Guardamagna — una delle maggiori specialiste di teatro elisabettiano in circolazione — si apre con un capitolo intitolato: «Quattro secoli di silenzio». La monografia di Guardamagna ha il merito di essere il primo completo studio italiano dell’opera di Middleton. Una primizia editoriale erudita e ficcante che dà il senso della colpevole trascuratezza di cui è stato fatto oggetto. «Almeno fino agli anni Settanta del Novecento —
Al Piccolo di Milano è in cartellone l’opera infine attribuita a Thomas Middleton, amico e collaboratore di Shakespeare ma molto meno shakespeariano, come si vede da questa messa in scena di Declan Donnellan
scrive Guardamagna — la figura di Middleton risultava essere quella di un autore giunto alla tragedia soltanto alla fine della sua carriera. Noto come il maggiore esponente inglese del genere della city comedy (…), autore di satire e poemetti, pamphlets e city entertainments, si supponeva che il suo interesse per la tragedia si fosse risvegliato soltanto negli anni Venti del Seicento».
Insomma, per secoli considerato drammaturgo minore ed episodico, accusato di eclettismo, relegato a epigono, e come se non bastasse defraudato di alcune delle sue opere migliori affibbiate a colleghi à la page, Middleton ha conosciuto la definitiva resurrezione (nel mondo accademico, in scena e ora tra il pubblico) alla fine del secolo scorso. E dire che non sono mancate prestigiose investiture: a cominciare da quella di Swinburne, il grande poeta vittoriano che Eliot considerava il massimo critico del suo secolo. E a proposito di Eliot, fu lui a definire Middleton «secondo solo a Shakespeare». Ma, a quanto pare, neanche i prestigiosi attestati sono serviti a favorire la sua fortuna.
L’attribuzione del vendicatore
Al cambio di rotta ha contribuito la tardiva attribuzione a Middleton de La tragedia del vendicatore. A lungo considerata opera di Cyril Tourneur, oggi «il
consenso sulla paternità di Middleton è indiscusso».
La tragedia del vendicatore, come appare evidente sin dal titolo, appartiene al genere assai fortunato nell’Inghilterra elisabettiana della revenge tragedy il cui capostipite è La tragedia spagnola di Thomas Kyd e la cui massima espressione artistica è Amleto naturalmente. Del resto, echi e richiami shakespeariani sono così evidenti che viene da chiedersi se Middleton non abbia in mente di scrivere un testo in bilico tra omaggio, parodia o interpretazione degenerata dell’Amleto.
Del resto, esiste tema letterario più atavico e avvincente della vendetta? L’impulso che la muove ci è talmente familiare e intelligibile che è difficile non identificarsi con il vendicatore, che esso sia un iracondo eroe acheo, un irrequieto principe danese, un sedicente conte di Montecristo o la ferocissima Black Mamba.
In scena
È quindi con un certo piacere demoniaco che un sabato sera mi siedo nella gremitissima platea del Piccolo di Milano a godermi la definitiva vendetta di Middleton sulla sorte scalognata. La tragedia del vendi
catore ormai gli appartiene senza tema di smentita; e ora può anche avvalersi di questa audace rilettura del regista Declan Donnellan, tradotta da Stefano Massini. Il testo originale prevedeva una rappresentazione di circa quattro ore e mezzo. È stata pietosamente ridotta a due ore scarse, tagliando alcuni passi centrali, convertendo l’inglese antico in un italiano colloquiale, e vestendo gli attori (i maschi) come le spietate iene di Tarantino. La scenografia è una facciata di legno, illuminata da una cruenta luce rossastra, che reca una scritta tanto cubitale quanto inequivocabile: VENDETTA.
Vi risparmio volentieri il plot intricato e barocco; bastano i generici nomi propri dei personaggi per capire che siamo in un’immaginaria spietatissima e dissoluta corte italiana. Ogni eroe porta nel nome il proprio destino; a cominciare dal protagonista, Vindice, per finire al Duca, passando per Lussurioso, Spurio, Castiza e via dicendo.
Il teschio
Dicevo di Amleto. Che il suo magistero imperioso gravi sull’ispirazione di Middleton è chiaro sin dal principio. D’altronde, Amleto fu scritto un lustro prima de La tragedia del vendicatore. Guardamagna dedica un capitolo intero al rapporto di collaborazione tra Shakespeare e Middleton.
Lo si vede bene quando Vindice si presenta in scena con un teschio in mano, rubando ad Amleto la sua performance più celebre, ma piegandola, per così dire, a urgenze meno serie, più pretestuose, a tratti persino grottesche. Il teschio brandito da Amleto appartiene a Yorick, un buffone di corte morto parecchi anni prima. Il che conferisce alle macabre elucubrazioni del giovane principe un afflato allo stesso tempo meditabondo e straziante, shakespeariano insomma. Il teschio adorato da Vindice, invece, è ciò che resta di Gloriana, la sua promessa sposa, stuprata e uccisa dal Duca prima delle nozze. Ora, che uno se ne vada in giro con il teschio dell’amata da vendicare è di per sé un azzardo narrativo che mette tutto in discussione, a cominciare dall’empatia del pubblico. Che Gloriana sia un pretesto lo capisci quando Vindice si rivolge al suo teschio con l’epiteto bony lady (dama ossuta). Da qui discende il tono dell’opera che trasforma la vendetta in una specie di buffonesca ossessione meta-storica.
Guido Paduano ha giustamente notato che «nell’Atene del V secolo a.C., la vendetta è un diritto-dovere la cui oggettività precede qualunque pulsione dell’individuo». Nella tragedia di Middleton, invece, resiste solo la brama omicida del singolo.
La tragedia giacomiana
Middleton, come sottolinea sin dal principio Guardamagna, appartiene totalmente al periodo giacomiano. Qualcosa è cambiato dopo la morte di Elisabetta. La corte descritta dalla Tragedia del vendicatore è un luogo corrotto e dissoluto. Il potere ha smesso di interrogarsi su di sé; agisce per la propria perpetuazione e per uno svago macabro e scellerato. La vendetta, venuta meno l’urgenza morale, è diventata un gioco di società. Vindice è un nichilista che usa ogni mezzo per infierire su altri nichilisti.
In tal senso la rappresentazione a cui sto assistendo, pur evitando sistematicamente ogni fedeltà filologica, recupera lo spirito splatter di Middleton: ettolitri di sangue, lingue mozzate, cadaveri stuprati. È così che Declan Donnellan dà conto di questo mondo sfarzoso, decadente e perverso, trasformando la vendetta in una danza, in un folle e travolgente balletto di corte.
Così riesuma lo spirito più autentico del teatro inglese, quel caotico caravanserraglio in cui gli spettatori partecipavano, interagivano, festeggiavano in modo profano, sguaiato e gioioso. Non a caso anche al Piccolo, mezzo millennio dopo, mentre in scena tutti uccidono tutti, mentre la musica house si fa sempre più opprimente e sincopata, il pubblico, come a un concerto rock o a un rave party, inizia a battere il tempo con le mani. Ecco la sola catarsi concessa a Middleton il vendicatore.