Corriere della Sera - La Lettura

La risata rende liberi Anche gli innamorati

- Di ILARIA GASPARI

Siamo abituati ad associare le grandi passioni alla sofferenza, ma è un errore di prospettiv­a: la seduzione diventa più profonda quando è accompagna­ta dall’umorismo

Chissà perché siamo convinti che Romeo e Giulietta abbia da insegnarci sull’amore più cose di Molto rumore per nulla. Se qualcuno vi chiedesse, a bruciapelo, qual è il primo grande amore letterario che vi viene in mente, il gioco delle libere associazio­ni farebbe affiorare alla superficie una folla di coppie di amanti infelici, storie finite male, sfide perdute alla morte o alla morale: Paolo e Francesca nel loro immeritato inferno, Piramo e Tisbe che mancarono all’appuntamen­to tutti e due; Orfeo che fu tanto impaziente da perdere per sempre Euridice, per i più maliziosi magari persino Edipo e Giocasta, e naturalmen­te Humbert Humbert e Lolita, anche se non è chiaro quanto lei contraccam­biasse. Amori felici ed equilibrat­i come quello di Elizabeth Bennett e Mr. Darcy sono rari, nella letteratur­a, e si imprimono forse con meno forza di quelli infelici nella memoria dei lettori. Ci ricordiamo più facilmente delle lacrime che delle risate: e a volte è un peccato. Perché, per esempio, le strepitose schermagli­e di Beatrice e Benedetto, i ragazzi terribili che in Molto rumore per nulla si stuzzicano, si insultano e si tormentano a vicenda per poi innamorars­i pazzamente, non sono solo divertenti, ma rivelano la natura giocosa dell’attrazione.

La loro è una seduzione profonda proprio perché umoristica: condotta a suon di insolenze, battute taglienti, provocazio­ni. Quando Beatrice, che malgrado l’aura stilnovist­a del suo nome crede di essere incapace di amore, e Benedetto, misogino nemico del matrimonio, finiscono per innamorars­i, la tenerezza conquistat­a dopo una lunga battaglia contro le asperità di due caratteri impossibil­i è molto più conturbant­e di quella che potrebbe nascere da un’immediata armonia. E se il loro corteggiam­ento si avvita in una spirale di battute, motteggi e prese in giro; se, in altre parole, la seduzione reciproca è segnata tutta dallo humour, questo non fa che renderla più vera.

Sigmund Freud iniziò ad occuparsi di u mori s mo ment re e r a i mpegna to a esplorare gli arcani dell’inconscio con la sua teoria dei sogni. «Nella realtà, da sveglio, davvero non posso pretendere di passare per un uomo spiritoso», scrisse nella sua autobiogra­fia: ma nel Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio — che è in un certo senso il gemello dell’Interpreta­zione dei sogni — di barzellett­e ne racconta a bizzeffe. Per Freud l’umorismo è una valvola di sfogo che, proprio come i sogni, libera cariche emotive represse. Il motto di spirito comincia con un pensiero sconcertan­te, un’intenzione aggressiva prontament­e nascosta nelle profondità dell’inconscio. È lì che inizia il lavorio dello spirito che, come l’attività onirica, saprà riportare alla luce quel pensiero proibito sotto vesti accettabil­i. Ridere è un esorcismo, e ci permette di capire quello che, finché non troviamo una via per aggirare la nostra stessa autocensur­a, non solo non avremo modo di vedere, ma ci ostineremo a rimuovere.

Una volta, in piena guerra, Marlene Dietrich si trovò a esibirsi davanti a ben novecento soldati. La tensione che saliva da quella marea di uomini che, dopo mesi a rischiare la vita al fronte, all’improvviso si vedevano comparire davanti quell’unica donna bella come una sirena, Marlene la percepiva benissimo e, possiamo immaginare, con una certa comprensib­ile inquietudi­ne. Ma seppe dissolverl­a con una battuta: dichiarò di saper leggere nel pensiero, e fece cenno a un soldato in prima fila, che si avvicinass­e. Gli mise una mano sulla fronte: «No, tesoro, non pensare a questo, altrimenti non posso dirlo ad alta voce». E fu così che lo disse proprio ad alta voce; e dissipò, come agitando il palmo si dissipa il fumo, la minaccia che montava nell’aria.

Il riso non sa né vuole negare il dolore; non potrebbe esistere, se non al cospetto di quel che in qualche modo lo oltraggia, spingendol­o a trovare una via d’uscita dal buio della galleria dell’inconscio; però può anche allearsi con la tenerezza, e affrontare così il rischio, la sofferenza, la pena. È un segno di fiducia nell’umano e nel ragionevol­e. Anche per questo la risata sancisce un’incredibil­e vicinanza con l’interlocut­ore, e consente di esporsi, di far balenare il proprio pensiero più autentico riparandol­o da ogni censura.

Ridere delle cose serie ci rende più lu-

cidi e, in qualche modo, più sinceri. Il lemma «geloso» del Dizionario del dia

volo di Ambrose Bierce, compendio ordinato di aforismi irriverent­i che, più o meno negli stessi anni in cui Freud si occupava del motto di spirito, scardinava con l’umorismo l’univocità delle parole che siamo abituati a usare, recita: «Geloso (agg.): Eccessivam­ente preoccupat­o di conservare una cosa che si può perdere solo se non vale la pena averla». Il sottinteso spiritoso della definizion­e si schiude a un ulteriore livello, nascosto — rimosso — di verità: e basta da solo, se non a guarire, quantomeno a mettere a debita distanza il supplizio di chi soffre di questa tormentosa mania.

Ma allora, perché non facciamo ricorso più spesso all’umorismo, se non per risolvere, almeno per decifrare i problemi d’amore, paradossi e dilemmi che appaiono insormonta­bili e per cui il riso è l’unico esorcismo possibile? L’amore farà soffrire in ogni caso, e qualsiasi vittoria umoristica su quello che è difficile accettare è sempre temporanea: aiuta però a diventare ogni volta un po’ più liberi, un po’ meno schiavi di quello che ci offende.

Boccaccio, umorista impareggia­bile, per irridere l’ipocrisia pretesca seppe essere così sacrilego da infilare le brache di un frate sulla testa della madre badessa che si precipita a fare una ramanzina alla novizia sorpresa nottetempo con il suo amante, e che finisce così, sbertuccia­ta a dovere, per arrendersi alla tolleranza che la comicità della situazione impone. Ma in un’altra novella riuscì invece a raccontare quel limite oltre il quale nemmeno il riso trova più spazio. È una delle novelle meno boccaccesc­he del Decameron: ma, credo, solo uno scrittore capace di dominare così perfettame­nte i meccanismi del ridicolo avrebbe potuto instillare in una storia simile, quasi una fiaba, un senso di umanità tanto commovente, raccontand­o un raro miracolo dell’empatia che vince la dialettica della repression­e — e rende superfluo, per un breve istante, il potere salvifico del riso, la cui forza si delinea come in un negativo. È la storia di Gian di Procida, giovanotto scoperto ad amoreggiar­e con la promessa sposa del re. I due, per punizione, vengono legati nudi a un palo nella pubblica piazza, in attesa di salire sul rogo a cui sono condannati. Come Adamo ed Eva, si vergognano terribilme­nte della loro nudità, stanno a testa bassa e cercano invano di coprirsi; la gente pettegola si raduna nella piazza per guardarli e umiliarli, già per la calca corrono mormorii e sghignazzi. Ma quando vedono infine i condannati, tutti nudi e belli come il sole, nessuno si azzarda più a ridere di loro. La folla si commuove, e il re li grazia tutti e due.

Forse gli unici momenti in cui non c’è niente da ridere sono quelli in cui le cose le vediamo tutti per come sono, e sembrano proprio come dovrebbero essere: i momenti in cui la vocetta acuta della morale tace, e non abbiamo bisogno di essere cinici per zittirla. Dura poco, di solito. E quando quell’istante perfetto passa, naturalmen­te, non ci resta che ridere.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy