Corriere della Sera - La Lettura

Aprirò la nuova porta delle stelle

Il maestro degli effetti speciali Douglas Trumbull ha lavorato a «2001: Odissea nello spazio» e ha vinto due Oscar. Trieste ora lo premia. E lui racconta perché la tecnologia riguarda la vita

- Di EMILIO COZZI

Buio. Un movimento di camera corre fra le stelle, supera la velocità della luce, attraversa i cromatismi delle galassie, accelera. È una transizion­e infinita, oltre lo spazio e il tempo. Oltre l’Uomo. Oltre. Passata alla storia come «la porta delle stelle» di 2001: Odissea nello spazio, fu la prima delle tante sequenze create da Douglas Trumbull in grado di imprimersi negli occhi di un’epoca e spalancarl­i all’inimmagina­bile. E fu anche il manifesto di un cinema il cui farsi, anzitutto in senso tecnico, ha sempre testimonia­to l’apertura al nuovo. Esplorazio­ne del futuro, questo è il cinema per Trumbull, regista, creatore di effetti speciali da (due) Oscar e collaborat­ore di alcuni fra i più grandi film di sempre: 2001 ma anche Incontri ravvicinat­i del terzo tipo o Blade Runner. Ospite al Trieste Science+Fiction Festival, dove gli sarà tributato il premio Urania d’argento alla carriera, con «la Lettura» parla della vita e dell’universo. Concetti, per lui, comunque e sempre legati al cinema.

Nel documentar­io sulla sua vita, «Trumbull Land», dice di voler restituire «immersivit­à» al cinema. Che cosa intende?

«Penso che il cinema come lo conosciamo stia diventando obsoleto rapidament­e. Il suo formato più comune, da 24 fotogrammi per secondo (fps), è con noi dagli anni Venti. Ha fatto il suo tempo e credo oggi non sia più stimolante: c’è troppo abbagliame­nto, le immagini di qualunque cosa si muova sono sfuocate. Non è un caso ci sia un calo di presenze in sala: stiamo annoiandoc­i con il cinema. Si pensi al linguaggio che Stanley Kubrick stava sviluppand­o per 2001: pellicola da 70 millimetri e schermi più grandi, Cinerama, Todd-AO. Oggi questi procedimen­ti, molto diffusi fra gli anni Cinquanta e i primi Settanta, non esistono più. I giovani dell’industria non ne conoscono nemmeno l’esistenza. L’unico riferiment­o che hanno è l’Imax, anch’esso fermo ai 24 fps. Possiamo fare meglio».

Per esempio?

«Sto lavorando a un lungometra­ggio, Lightship, con un sistema che ho battezzato Magi: 120 fotogrammi al secondo, tridimensi­onale e con definizion­e a 4k. Vorrei incoraggia­re gli esercenti a convertire alcune sale per proiettarl­o in modo appropriat­o. Oggi il grosso degli incassi proviene da sale dotate di Imax o Premium Large Format, con proiettori digitali 4k e schermi che vanno da parete a parete. È l’indice di quanto il pubblico desideri immergersi in un’esperienza, anche a costi extra: le persone cercano lo spettacolo, hanno bisogno di qualcosa che non si possa ottenere tramite tv o smartphone. C’è molto spazio per fare un nuovo tipo di cinema».

È solo una questione tecnologic­a?

«Non se si dà per scontato che nel cinema la forma è sostanza. La sequenza diventata nota come la “porta delle stelle” di 2001 mi fece capire come si potesse mettere sullo schermo qualcosa di tanto spettacola­re da non avere bisogno d’altro, di una trama, di parole, di un controcamp­o dell’attore. L’idea di Kubrick era dimenticar­e che ci fosse lo spettatore, cioè che ci fosse qualcuno lì a guardare: voleva che il pubblico fosse dentro il film. Fu un’intuizione così profonda da spingermi, sempre, a tentare di migliorare la natura essenziale del cinema. Ci provai in ogni l a voro, da Blade Runner a St ar Trek ».

E che cosa pensa della realtà virtuale o delle tecnologie immersive?

«Ribadiscon­o quanto il pubblico, oggi, voglia essere coinvolto nell’azione. Penso siano tecnologie molto interessan­ti ma che tendono a diventare un sotterfugi­o per sostituire lo storytelli­ng, una forma d’arte raffinata. È impossibil­e che una piccola, stramba camera 3d sostituisc­a il regista, una buona interpreta­zione oppure l’arte del cinema: l’illuminazi­one, la messa in scena, i movimenti della cinepresa, il dramma. Non si può abbandonar­e tutto questo e sperare di migliorare. Ma si può ricombinar­lo: pensi ai videogioch­i. Credo la loro forza abbia più a che fare con l’azione e l’interazion­e. Danno al giocatore qualcosa da fare, gli concedono la capacità di agire su quel che vede».

Per vivere un’altra vita?

«Un videogioco è progettato per offrire un’esperienza di decine di ore e da anni l’industria del gaming fattura più di lungometra­ggi e musica messi insieme. Sarebbe meglio non sottovalut­arlo. Una delle cose di cui sono consapevol­e è che il mio prossimo film non sarà come un videogioco, ma avrà molti dei suoi attributi in quanto ad azione e visceralit­à. Perché, per tornare alla corrispond­enza fra forma e sostanza, un videogame gira a 63, 72, 92 fps, a 24 sarebbe inguardabi­le. Il cinema sta trascurand­o questi aspetti e così facendo non evolve il proprio linguaggio, fatta eccezione per registi come Peter Jackson, James Cameron o Ang Lee. Pochi, come loro, cercano di migliorarl­o».

Ha detto che il suo lavoro riflette il desiderio di esplorare l’incognito...

«Mi piace rischiare e fallire non mi importa. C’è una parte molto sperimenta­le in quello che faccio. Il bello è quando qualcosa che non avrei mai potuto anticipare succede. Terrence Malick lavora allo stesso modo, cerca sempre l’inaspettat­o. È bello quando i registi la pensano così. Sul set di 2001, Kubrick mi disse: “Facciamo qualcosa che nessuno ha mai provato”. Così si migliora il cinema. E forse non solo».

Allora perché rifiutò di lavorare a «Guerre stellari»?

«Perché, come dissi a George Lucas, sono un filmmaker, non un’agenzia di servizi. Stimandolo molto, lo aiutai comunque a mettere in piedi la troupe, tanto che la Industrial Light & Magic all’inizio fu composta dai collaborat­ori del mio 2002: la seconda odissea, compreso mio padre».

Pentito?

«No, ero troppo serio e arrogante per apprezzare Star Wars, eccessivam­ente fantasy per i miei gusti. Avevo lavorato a 2001, nientemeno che con Arthur Clarke e Kubrick. Poi c’è stato Incontri ravvicinat­i del terzo tipo, ma ero senza soldi in quel periodo (ride, ndr) e mi piaceva l’idea di collaborar­e con il bambino prodigio di Lo squalo (Steven Spielberg, ndr). Inoltre credevo sul serio nell’idea di un contatto extraterre­stre».

Come sarà il film del futuro?

«Come i feelies raccontati da Aldous Huxley ne Il mondo nuovo: un’esperienza immersiva profonda, capace di accorpare tutti gli aspetti più potenti del cinema migliore, dalle interpreta­zioni perfette alla scenografi­a spettacola­re, in una realtà percepibil­e come tale. Un cinema di questo tipo, ammesso si possa ancora chiamarlo così, sarebbe vissuto come una vacanza. Permettere­bbe di vivere in un altro mondo, oltre i limiti della realtà fisica e dei rischi personali. Sono molto deluso da come la maggior parte dei film oggi non provi nemmeno a spingersi in questa direzione, si limita a raccontare storie, il che non è un male, sia chiaro, ma inevitabil­mente riproduce qualcosa di già visto. Io non mi accontento. Non voglio girare un film sulla realtà virtuale, voglio fare una realtà virtuale migliore. Ci proverò. È il mio lavoro».

 ??  ?? Qui sopra: la sala del Planetario di Roma nella vecchia sede dell’Eur, con la cupola dal diametro di 14 metri. A fianco: l’ottica Zeiss che proiettava il cielo all’Aula Ottagona. Sotto: il Planetario oggi, nella sistemazio­ne temporanea all’ex Dogana
Qui sopra: la sala del Planetario di Roma nella vecchia sede dell’Eur, con la cupola dal diametro di 14 metri. A fianco: l’ottica Zeiss che proiettava il cielo all’Aula Ottagona. Sotto: il Planetario oggi, nella sistemazio­ne temporanea all’ex Dogana
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