Corriere della Sera - La Lettura

Il possesso che ci possiede Cioè l’oro

Mito e fortuna dell’elemento numero 79 della tavola periodica: più di un semplice metallo

- Di DANILO TAINO

Oro. Si sa che chi lo possiede ne è anche posseduto. Cento cinquant’ anni fa, John Ruskin ebbe a raccontare di un tizio che si imbarcò su un naviglio e prima di partire vendette tutti i suoi possedimen­ti, li permutò in monete d’oro e le mise in una borsa. La nave incontrò però una tormenta e i passeggeri dovettero cercare di mettersi in salvo. Il tizio si legò la borsa in vita e si gettò in acqua. Naturalmen­te andò a fondo. Si chiese Ruskin: «Mentre era trascinato negli abissi, quell’uomo possedeva forse il suo oro? O era piuttosto l’oro a possedere lui?». La nota morale del grande intellettu­ale inglese — ricordata da Peter Bernste in in Oro. Storia di

un’ossessione (Longanesi, 2000) — va al cuore del problema: com’è possibile che quel metallo di transizion­e, numero 79 della tavola periodica degli elementi, banale Au, abbia affascinat­o senza limiti e spesso portato alla follia l’umanità? Che segreto è nascosto in quel giallo luccicante per cui non ne può fare a meno l’innamorato come l’avido come il ministro del Tesoro? È un mistero, non c’è spiegazion­e vera.

Certo, è bello, pare abbia affascinat­o fin dalla preistoria. Sì, è difficile da trovare e da portare alla luce. Va bene, è duttile e malleabile e se ne possono fare oggetti e monili, inattaccab­ili dagli elementi. È certamente cool, lo sapevano e lo sanno i re e le regine. E quando tutto sembra perdere valore non resta che l’oro. In inglese si chiama gold, non lontano da god, dio. Ma perché considerar­e l’oro un dio o un diavolo per il quale si arriva a uccidere se in fondo è solo un metallo, come metalli sono, nella stessa tavola di Mendeleev, il rame e lo zinco? Perché in fondo all’arcobaleno c’è una pento-

la d’oro e non di alluminio? È la storia ad avvicinarc­i alla risposta: l’oro ti possiede ma è anche libertà.

Nel 1933, quando stava per giurare da presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt ricevette un messaggio dal suo predecesso­re, Herbert Hoover. Hoover era un ingegnere minerario e di oro se ne intendeva: lo aveva cercato prima in California e poi in Australia. E la sapeva anche lunga in fatto di pasticci con i conti pubblici: durante la sua presidenza crollò Wall Street e iniziò la Grande Depression­e. A Roosevelt consegnò un secco manifesto politico: «Abbiamo l’oro perché non possiamo fidarci dei governi». Il suo successore se ne fece poco: dei governi si fidava, soprattutt­o dei suoi.

La frase di Hoover racconta però quello che è vero probabilme­nte da sempre: il metallo giallo è qualcosa che dà sicurezza, che a differenza delle banconote ha un valore intrinseco che i governi non possono modificare, che è uguale a Nord e a Sud, a Oriente e Occidente, che dà calore nei momenti di crisi nera. È il bene rifugio: protegge dalle avversità.

Briciole d’oro sono state trovate nelle caverne del paleolitic­o. Pare però che i primi a dargli un valore siano stati gli egizi, tra il Tremila e il Duemila avanti Cristo: per un pezzo d’oro servivano due pezzi e mezzo di argento. Non era usato come moneta ma era un grande simbolo di potere. La tomba di Tutankhamo­n ne conteneva una tonnellata e mezzo. Hatshepsut, l’affascinan­te donna faraone salita al trono attorno al 1470 a.C., inviò esplorator­i in cerca di oro per tutta l’Africa, si pensa fino all’attuale Zimbabwe, e fece erigere, nel monumento al dio Ammone, co l o nne co n l e s o mmità r i ve s t i te d’oro, splendente sotto il sole. Scendendo dal Sinai, Mosè si scatenò sì contro il vitello d’oro che gli ebrei avevano iniziato ad adorare in sua assenza; ma mentre riceveva le Tavole della Legge, Dio gli disse di costruire un tempio con al centro un’arca che «rivestirai d’oro puro». Non era ancora moneta, veniva usato per abbigliars­i, per rendere omaggio e devozione. Ma già era il simbolo, persino nella Bibbia, di qualcosa di unico, non riproducib­ile e incontroll­abile: di grande valore e indipenden­za.

Le prime monete di metallo giallo furono coniate probabilme­nte in Anatolia, nei regni di Frigia e Lidia: da lì i miti di re Mida e Creso, ricco come nessuno. E da allora l’oro ha fatto la storia: dalla Grecia al Medioevo, dalla scoperta delle Americhe guidata da quella che Adam Smith chiamò «la sacra sete dell’oro» ai creek setacciati della California in un’affollata corsa di speranza e avidità. Col crescere della complessit­à del mondo, inevitabil­e che si cercasse uno standard per misurare i valori di tutto. Quello standard non poteva che essere l’oro, qualcosa di accettato universalm­ente, non manipolabi­le nel suo contenuto. Attorno a esso, alle sue quantità, si cercò di costruire una stabilità, quella del Gold Standard, appunto: iniziato in fasi diverse a seconda dei Paesi (in Inghilterr­a dopo le guerre napoleonic­he) tra fasi alterne durò di fatto fino

La visualizza­zione de «la Lettura» di questa settimana è a cura di TOMMI informatio­n design cluster di Milano; è stata realizzata da Giulia De Amicis, informatio­n designer. Nella foto a sinistra: John Ruskin (1819-1900)

alla dichiarazi­one di non convertibi­lità del dollaro in oro di Richard Nixon nel 1971, tra guerra in Vietnam e irresponsa­bilità di molti Stati. Oggi nessun Paese è più in regime di Gold Standard: le valute sono Fiat Money, emesse e garantite (si fa per dire, sosterrebb­e Hoover) dai governi.

L’oro è però lontano dalla sua fine. Finora, pare ne siano state estratte 190 mila tonnellate: secondo il re degli investitor­i Warren Buffet, pari a un cubo di una ventina di metri di lato, valore sui 9 mila miliardi di dollari. C’è chi dice un po’ meno, chi invece fino a 15 volte di più. Fatto sta che il mondo continua a vedere nell’oro il metallo della libertà e della stabilità nei tempi bui. Sostituibi­le forse un giorno dalle criptovalu­te fuori dal controllo dei governi. Ma chi le metterebbe al dito?

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