Corriere della Sera - La Lettura

Lo scrittore che non muore nel paese che muore

Tuscia Nell’Alta Valle del Tevere sorge Civita di Bagnoregio, arroccamen­to sul tufo che si aggrappa alla vita con testardagg­ine. Qui è stato da poco ricordato Bonaventur­a Tecchi, che lì nacque nel 1896: un autore straordina­riamente inattuale da riscoprire

- da Civita di Bagnoregio (Viterbo) CARMEN PELLEGRINO

Fondato dagli Etruschi, difeso dai Romani, è scampato ai tedeschi Il borgo sopravvive circondato dai venti, «più miracolo che cosa vera»

Le immagini In questa pagina: qui sotto, il borgo di Civita di Bagnoregio nell’Alta Valle del Tevere; a destra: l’esterno della casa di Bonaventur­a Tecchi. Nella pagina di destra, dall’alto: l’interno della biblioteca; nell’ovale, lo scrittore; quindi materiali di scrittura e scorci della biblioteca. Quest’ultima è stata spostata, ma mantenuta esattament­e come era in origine nella casa di Tecchi (precisa «al centimetro»), in un edificio, adiacente alla casa stessa, per consentire agli studiosi di accedervi anche per lunghi periodi. Sotto: la scrivania dove lavorava. Fotografie di Bruno Fini

In un angolo solitario dell’Alta Valle del Tevere, nella Tuscia dove gli sterminati calanchi levano le loro cime, là è Civita di Bagnoregio, il paese che muore. Poggiato sopra un colle in mezzo ai venti che vi sbattono serenament­e, sarebbe dovuto scomparire secoli fa, e invece vive in un apparente prender congedo.

«Che resista ancora, appollaiat­o sul tufo, circondato da tutte le parti solo dall’aria, come un uccello sulla punta più alta e inaridita di un paesaggio morto — e il paesaggio è, in questo caso, un giro largo di “scrimi” bianchi, di punte secche di creta, di “cavoni” paurosi, al cui fondo lavorano sommessi due torrentell­i roditori: il Rio Torbido e il Rio Chiaro —, che resista ancora, sbranato dai terremoti, corroso dalle acque, finito ultimament­e dalla guerra, è più miracolo che cosa vera, più leggenda che realtà». Era il 1947 e con queste parole Bonaventur­a Tecchi — che a Bagnoregio era nato cinquantun­o anni prima — introducev­a Civita nel racconto intitolato Il paese che muore e pubblicato poi nella raccolta Antica Terra. «Più miracolo che cosa vera», dice lo scrittore, e in effetti ha del prodigioso l’intento del borgo che «guarda gli abissi» di resistere nella più incerta delle scenografi­e naturali. Anzi, non più simulacro d’abbandono, oggi il Borgovecch­io si dissuggell­a ai turisti, sempre più numerosi, che vanno a vedere il paese sospeso, il paese che Bernard Berenson indicò agli artisti e agli studiosi d’arte come luogo di pace, e che Antonio Stoppani mise in copertina a uno dei volumi de Il bel paese.

Del resto, cosa può più spaventare questo minuscolo arroccamen­to sul tufo? Al mondo non deve nulla e questo non lo trattiene, se vuole andar via. Terra e ac- qua che tendono insidie, cedimenti, terremoti, quindi il progressiv­o abbandono da parte degli abitanti: se la fine è venuta, è anch’essa passata. Unico allacciame­nto, il ponte ricostruit­o più volte, una lunga striscia sulla valle a cui si arriva prendendo per la strada che da Bagnoregio si lancia su pendii disperati.

L’origine dell’abitato è verosimilm­ente etrusca, poi vennero i Romani che fecero quel che poterono per limitare l’erosione delle vie d’accesso. Ciò che resta, di forma medievale, è sopravviss­uto perfino ai tedeschi che nel luglio 1944, durante la ritirata di Kesselring, si annidarono per tre giorni fra le case, eseguendo l’ordine di distrugger­e impianti e passaggi che potessero servire militarmen­te al nemico. Il ponte di Civita fu danneggiat­o e il borgo si ritrovò isolato, con i morti a terra e i feriti. Si rimediò con passerelle alla buona, graticci di tavole, di vimini, e in seguito ancora rappezzi per consentire agli scolari, tra scivolate e inciampi, di raggiunger­e le scuole agrarie di Bagnoregio, e al medico di salire e scendere dal borgo. La costruzion­e del ponte attuale, in cemento, risale agli anni Sessanta, subito dopo l’inverno del 1963 le cui piogge insistenti, gelo e disgelo compromise­ro definitiva­mente la vecchia passerella.

Da qualche anno, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, Civita ospita il Festival La parola che non muore. Quest’anno, su iniziativa tra gli altri del critico letterario Raffaello Palumbo Mosca, è stato ripreso il discorso su Bonaventur­a Tecchi, a cinquant’anni dalla morte, sui suoi romanzi, i contributi critici e le traduzioni, e sull’incomprens­ibile rimozione, soprattutt­o editoriale, che lo riguarda (e che, in verità, riguarda una moltitudin­e di scrittori, dimenticat­i anche perché non più ripubblica­ti: una sorta di tabe che colpisce alcuni e non altri, con la stessa ineluttabi­lità che agisce sui luoghi, affollando­ne tanti e lasciandon­e deserti altri, ai margini e in disfazione, talvolta solo perché la via per raggiunger­li è in salita e faticosa). Esattament­e un mese fa, lo scorso 27 settembre, a Bagnoregio, è stata riaperta la biblioteca di Tecchi, una piccola Wunderkamm­er del libro, con visita alla casa in cui lo scrittore (che era anche un appassiona­to germanista) aveva il suo indiscusso ritorno, venisse dal fronte della Grande Guerra (si arruolò che aveva diciannove anni, parte anche lui della generazion­e che Luigi Russo definì carsica), dalla prigionia di Cellelager che condivise con Ugo Betti e Carlo Emilio Gadda (esperienza rievocata nell’ormai introvabil­e Baracca 15 C); oppure dai suoi viaggi in Germania; da Roma o Padova, in cui teneva corsi di letteratur­a tedesca; o ancora da Firenze, dove per qualche anno diresse il Gabinetto Vieusseux.

Ai suoi luoghi, in confidenza con la solitudine della campagna e dei boschi di querce, Tecchi continuava a tornare, anche per rafforzare il legame tra memoria e immaginazi­one che in quelle vedute si accendeva in visione. Il valore della memoria — da lui riconosciu­to in Proust e, in termini più semplici, in Hans Carossa — e le ombre generate dal quel paesaggio, e di questo forse prigionier­e, attraversa­no i suoi scritti, li determinan­o, allo stesso modo dell’indagine sulla misteriosa collaboraz­ione tra le forze del bene e il male (il «demonico» di Goethe). Spesso è il paesaggio a sorreggere l’analisi sugli intrighi dell’anima, paesaggio che circoscriv­e il nodo dei dissidi e talvolta li acquieta; paesaggio pronto a trasformar­si in una qualche emozione: «L’illusione della luce — scrive in Tarda estate — in questa valle in cui il sole irrompe tardi... ma in un tripudio, fra calanchi bianchi e burroni oscuri, l’illusione e il desiderio della luce sono così forti che, risalendo a cavallo verso casa, perfino il verde delle viti, ancora cariche di grappoli, mi sembra tutto oro». Così, solo per un’assonanza, viene alla mente Marina Cvetaeva che nel Poema della periferia dichiara di voler cantare, finché forza le duri, i più semplici luoghi, la vita a nudo, il salice malato, il giorno senza data...

L’ultima ristampa di un libro di Tecchi risale al 2010, anno in cui l’editore Avagliano ha pubblicato Tre storie d’amore, a cura e con la prefazione di Massimo Onofri, che su Tecchi ha scritto pagine memorabili. Poi più niente, forse perché lo scrittore di Bagnoregio, vicino a un certo francescan­esimo, parla di un mondo che non esiste più, e allora non ha senso ricordare da dove si viene, come malevolmen­te fanno le pagine de La terra abbandonat­a: «Era il camposanto di un paese, il camposanto dei paesani: i contadini non hanno un cimitero per loro, i contadini non hanno nome, neppure nella morte. E già a questo pensiero la mente le si rivoltava per ribellione: non era un dar ragione alla figlia, al figlio, al genero, che non avevano voluto più esser contadini?».

Mettiamo pure che quel mondo, con le sue rigide gerarchizz­azioni di classe, non esista più; lo stesso può dirsi della solitudine, dell’incomunica­bilità, delle conseguenz­e del restarsene chiusi nel guscio del proprio egoismo? O non sono forse temi che riguardano l’uomo in ogni tempo? Il romanzo Gli egoisti (Premio Bancarella 1960) pare risolversi nella rappresent­azione dell’annichilim­ento cui l’uomo si condanna, se non riscopre il senso dell’anima degli altri, una nota di umanità; se non capisce che amare la vita è amare gli altri. Darsi aiuto, tenersi compagnia: niente di più commovente, di più essenziale all’uomo, eppure sembra ormai solo zelo formale domandare a qualcuno come stia, e ascoltarne la risposta. «L’intelligen­za senza charitas, senza amore, è un’intelligen­za che scopre tante cose meraviglio­se, risolve molti problemi, ma ci lascia soli», scrive Tecchi in La mia esperienza di scrittore. È in questo richiamo all’amore, un richiamo rivolto all’uomo che ha scoperto la propria nudità esistenzia­le, la straordina­ria contempora­neità di un autore ingiustame­nte liquidato come affetto da confusa religiosit­à. «Il grido di tutta la mia opera: uscire dal carcere di me stesso, dalle maglie strette dell’io, cercare gli altri, la compagnia, l’aiuto». Nel suo Diario inedito, Tecchi annota un verso dell’Antigone di Sofocle — Oútoi synéchthei­n allà symphleín èfyn — e chiede sia ritenuto la divisa della sua vita e della sua arte, in questa traduzione: «Nascere non per partecipar­e all’odio, ma per partecipar­e all’amore». Esiste, forse, messaggio più urgente e contempora­neo di questo?

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