Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo di Merz chiuso in 31 igloo
Maestri L’HangarBicocca di Milano rende omaggio a uno dei padri dell’Arte Povera raccogliendo da diversi musei un numero significativo delle strutture al centro della sua poetica
Terza Pagina del «Corriere», 15 ottobre 1970: Dino Buzzati scrive un breve articolo, Gli enigmi
dell’arte concettuale. Dopo aver fatto un giro in alcune gallerie milanesi, arrivato alla galleria Lambert, descrive quello che vede: «La sala è vuota; se non fosse per una serie di numeri, fatti con tubi al neon, che scintillano diagonalmente sulla parete di fronte: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13... È la proposta di Mario Merz, vigoroso giovanotto biondo dalla faccia di guida alpina vecchio stampo. Le cifre sono l’inizio della cosiddetta serie di Fibonacci, celebre matematico vissuto a cavallo tra il XII e il XIII secolo; nella successione ogni nuovo numero è fatto della somma degli ultimi due. Serie che ha delle misteriose corrispondenze nella natura (in una pigna, per esempio, il numero dei pinoli delle file successive corrisponde esattamente allo schema di Fibonacci)». Profeticamente conclude: «Sentirete parlare a lungo di Arte Povera».
Ora, quella sequenza di numeri di neon che avevano incantato Buzzati rappresenta la concreta cornice per lo straordinario omaggio che Pirelli HangarBicocca e il suo direttore artistico Vicente Todolí, hanno voluto dedicare a quel «vigoroso giovanotto biondo dalla faccia di guida alpina» e ai suoi igloo, padre dell’Arte Povera. Una mostra, la prima al mondo di queste dimensioni, che solo qui poteva assumere questa potenza espositiva: e non solo per il numero di Igloo, 31 dei circa 140 realizzati nel corso di quarant’anni (provenienti dai più importanti musei al mondo) ma proprio per la compattezza, linearità e misteriosa magia dello spazio all’interno delle imponenti navate dell’ex spazio industriale.
All’Hangar nello stesso momento convivono due paesaggi, entrambi animati da un’estetica postatomica ed entrambi carichi di una forza tanto politica quanto poetica: quello verticale delle sette «torri celesti» di Kiefer e quello orizzontale dell’immaginaria città di Igloo di Merz. Da una parte spiritualità (ma anche simbolo di un potere verticale) e dall’altra, una visione simbolicamente «democratica» che evoca comunione, umanità, nomadismo, natura, come espressione di tante esistenze vissute «dal basso», proprio come ricorda Tolstoj quando scrive: «La storia la fa chi non sa di farla». Due mondi contigui, dunque. Entrambi potenti nell’essere proiezione del nostro tempo uniti dal linguaggio dell’arte e qui separati solo da un confine immaginario: una immensa, impenetrabile, e al tempo stesso indifesa tenda nera.
È quello che Vicente Todolí voleva, quando tre anni fa ha pensato, in collabo- razione con la Fondazione Merz, questa speciale mostra: Igloos è la messa in scena di un potente universo di energie, occasione fondamentale per far comprendere al meglio la complessità e ricchezza formale del lavoro di Merz, la sua profondità visionaria. Qui l’Igloo si manifesta come metafora del luogo ideale in relazione allo spazio: spazio fisico e spazio mentale, introspezione dell’io e al tempo stesso contenitore dell’intero cosmo.
Lo stesso Merz spiega il senso simbolico dell’Igloo. Lo fa in una conversazione con Harald Szeemann, nel 1985, in occasione della mostra alla Kunsthaus di Zurigo in cui, per la prima volta viene presentata una «città degli igloo» e che ha rappresentato il punto di partenza di questa mostra: «Ho avuto la sensazione che l’igloo fosse un canone musicale, un canone pittorico ma anche un canone fisiologico. L’igloo è un ventre. E io ho bisogno che dal ventre nascano delle cose. Probabilmente nel mio lavoro precedente all’igloo, il senso del ventre, e cioè il senso che tutto è dentro e tutto può uscire, è una delle cose che hanno fatto sì che potessi fare l’artista».
In effetti la potenza di questa riscrittura, che rappresenta l’ampia fase della vita artistica di Merz, dal 1968 al 2003, anno della sua morte (era nato a Milano nel 1925), sta proprio nella possibilità di mettere in luce l’inaspettata e variegata forza estetica racchiusa nella singolarità di ogni opera: per l’uso dei materiali, per la loro fragilità, per la valenza simbolica, per il richiamo storico. Qui sembra di percorrere le strade di una città irreale, onirica, proprio come in una delle Città
invisibili di Calvino, dove «le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure». Igloo come metafora del rapporto uomo-natura, come idea di un nomadismo che comprende vita e arte, come forma di scrittura con sostanze come argilla, ferro, giornali, rami, foglie, pezzi di automobili, marmi, tavoli, pietre, rubinetti e, naturalmente, neon. Merz, facendo sue le tensioni del tempo, ha inventato tanti tasselli di una irreale città del futuro, nella quale sopravvive solo una disperata speranza: la poesia dell’arte.
Così, percorrendo questa immaginaria «città degli igloo» si vive una dimensione di straniamento vitale in cui si colgono le tracce della più recente storia contemporanea. Come, ad esempio Igloo di Giap, del 1968, formato da numerosi blocchi di argilla con la scritta al neon: «Se il nemico si concentra perde terreno se si disperde perde forza. Giap». È una frase del generale Võ Nguyên Giáp, allora al vertice dell’esercito del Vietnam del Nord. Benché queste parole evochino la lotta «con-
tro l’imperialismo occidentale», Merz puntualizza: «È solo una frase che richiama una visione buddhistica della guerra». Ma le tensioni ideologiche sono sempre presenti: nel 1968 Merz realizza anche Objet cache-toi («Oggetto vai via, nasconditi»), un igloo di «panini» di stoffa bianca con un neon che riporta uno slogan apparso alla Sorbona durante le manifestazioni parigine. Qui si evoca il rapporto col mondo dei consumi. Ma si celebra anche l’idea di una visione sintetica dell’arte, che per Merz è rappresentata proprio dallo stesso igloo. E poi, anche
Tenda di Gheddafi, del 1981, per l’impor
tante mostra Identité Italienne. L’art en
Italie depuis 1959 curata da Germano Celant al Centre Pompidou di Parigi.
Merz era un uomo dai tratti umani ombrosi, talvolta duri. Amava portare ogni confronto al limite estremo. Viveva una costante sfida che imponeva anche a sé stesso. Un geniale visionario con un’autentica dimensione militante. Attraverso la mostra Igloos appare ancora più evidente come Merz avesse inventato una nuova forma di narrazione, un’idea di spazio (politico e mistico) attraverso il quale interrogarsi sull’esistenza. Nell’igloo Merz ci entrava, ci viveva, ci portava la figlia, la piccola Beatrice, lo percorreva come spazio fisico e spazio mentale, inventava i materiali più inaspettati, realizzava assemblaggi complessi (che solo il suo storico assistente Mariano Boggia sa montare) per poi, all’ultimo momento, ripensarli completamente. Era un irrefrenabile costruttore di utopie, sapendo bene, come ricorda Celant, che «l’arte è l’unica cosa che permette di attraversare le cose e di essere un processo di attraversamento, non un arrivo».
«Era un uomo figlio della luna», ricorda Todolí: riservato e schivo, «aveva bisogno del silenzio, inseguiva la concentrazione. Che trovava, paradossalmente, nelle osterie, quelle frequentate degli operai. Creava le sue opere, i suoi igloo o intere mostre, con la forza del puro istinto, senza un progetto, senza calcolo, solo con l’azione del fare e la coscienza del pensiero. Durante la preparazione di una mostra spesso spariva. Io sapevo che era in una cantina. Aveva bisogno di riflettere. Poi tornava e cambiava ogni cosa. Era fatto così». Di fronte all’ultima opera, il
Doppio Igloo di Porto che ha un cervo (ma in verità è una cerva con le corna di un maschio) fissato nella sommità e che proprio Todolí acquisì per la Fundação de Serralves di Porto, il direttore artistico conclude: «Una cosa è certa, se ora Mario fosse qui direbbe: “È una mostra bellissima, cambiamo tutto!”».