Corriere della Sera - La Lettura

All’America Latina serve più capitalism­o

Anche Noam Chomsky, dopo aver cantato le lodi del regime di Chávez, adesso ha scoperto che il Venezuela si trova in una situazione tragica. Ma il suo errore di fondo è credere che i problemi di quei Paesi derivino dalla libera impresa. Invece è il contrar

- di LORIS ZANATTA

Noam Chomsky l’ha ammesso anche nel suo libro più recente uscito in Italia, Venti di pro

testa (Ponte alle Grazie): il Venezuela è un disastro con «risvolti tragici». E disastri hanno causato Lula in Brasile (dove oggi, domenica 28, si vota per il ballottagg­io delle presidenzi­ali tra il candidato populista di destra Jair Bolsonaro e quello di sinistra Fernando Haddad, legato a Lula) e i Kirchner in Argentina. Come negarlo? S’era dunque sbagliato a cantarne le lodi? Macché: sono stati loro a sbagliare, non lui a giudicarli. Che colpa ne ha lui se erano corrotti? Non so se i radicals anglosasso­ni, che da anni si spellano le mani per Fidel Castro, Rafael Correa, Hugo Chávez, mi fanno più rabbia o tenerezza: è così evidente che non sanno di che cosa parlano. Penso ai Michael Moore, agli Oliver Stone, ai Ken Loach: bevono come acqua santa tutto ciò che versano loro, sembrano chierichet­ti tra vecchi marpioni; beata innocenza. Vogliono espiare i peccati dei loro padri; o quelli che la vulgata ritiene tali. «In America Latina il capitale continua a investire per rubare ricchezza», grida Chomsky. Abbasso il capitalism­o!

Ma è davvero il capitalism­o il problema dell’America Latina? Che capitalism­o? La domanda è antica: è predatorio e spietato, dicono alcuni; gerarchico ed estrattivo, dicono altri; è la longa manus dell’Impero yankee egoista e famelico, dicono tutti. Eppure le cronache degli scandali che negli ultimi tempi hanno spazzato la regione parlano chiaro: in America Latina c’è un sacco di anticapita­lismo, ma di capitalism­o ben poco. Almeno se per capitalism­o si intende un mercato libero e competitiv­o, uno Stato democratic­o che regolament­a l’attività economica senza truccarla, un quadro giuridico affidabile che incoraggia l’iniziativa privata, una burocrazia che l’incentiva e non la boicotta. Lo so che tale idillio non esiste da nessuna parte, ma è questione di dosi: un conto è avvicinars­i all’ideale; tutt’altro non sfiorarlo nemmeno. E, salvo lodevoli eccezioni, l’America Latina ne è assai lontana.

Forse, chissà, c’è così poco capitalism­o, o il capitalism­o latinoamer­icano è così lontano dall’idealtipo, perché ha tanti nemici. Nazionalis­ti, socialisti, cattolici, terzomondi­sti, ognuno per suo conto o tutti in coro, l’hanno sempre combattuto come si combatte il demonio:

vade retro. D’altronde l’ethos capitalist­a non è figlio del mondo ispanico e cattolico; mica è un caso. Ecco così che ogni generazion­e partorisce nuovi anticapita­lismi, che l’antica botte incamera nuovo vino: la lotta di classe diventa buen vivir, il leninismo postcoloni­alismo, le nostalgie reazionari­e «decrescita felice». E così via.

Fin qui, tutto da copione. Ma dove si sperava che il copione fosse cambiato è tra coloro che capitalist­i dovrebbero essere per vocazione, convenienz­a, convinzion­e: la classe imprendito­riale. Esiste in America Latina un ceto capitalist­a disposto a rischiare, competere, innovare? Una borghesia intrisa d’etica del lavoro? A occhio, direi poca. E quella che c’è, è quella che più patisce la concorrenz­a sleale di corruzione, clientelis­mo, disprezzo per i suoi valori. Gli scandali di questi anni ripropongo­no, ingiallita, la solita fotografia di imprendito­ri avvinghiat­i ai governi in abbracci sconci. Non chiedono competizio­ne, ma protezione, non vogliono regole, ma privilegi, non cercano mercati, ma commesse. Più che il capitali- smo, prospera un rancido retaggio coloniale: longevo, pimpante, arrogante. Il patrimonia­lismo impera: la carica pubblica è un feudo privato; i funzionari piccoli re spagnoli dei tempi andati che usano lo Stato per premiare e castigare, ingrassare clientele, ricattare nemici, comprare indecisi. Meritocraz­ia, mercato, legalità? Parole vuote.

L’altra faccia dell’incestuosa simbiosi tra politica ed economia è il corporativ­ismo: è un costume così atavico e radicato, diffuso e ramificato da apparire naturale e legittimo. Espresso in forma brutale, si può descrivere così: per i miei, tutto; per gli altri, nulla; e lo Stato è di chi lo prende. È la stessa logica familistic­a delle mafie: non sono anch’esse corporazio­ni? Detto altrimenti: dentro al mio corpo sociale, complicità, fedeltà, omertà; famiglia o scuola, municipio o sindacato, impresa o quartiere, tutto è perdonato e permesso. Fuori dal mio corpo sociale, non c’è legge che tenga: ognun per sé. Nell’immaginari­o corporativ­o, non c’è un cittadino universale; ci sono fedeli e infedeli, noi e loro. Più che investire, così, che aspirare a cambiare il mondo, a ripercorre­re le orme della borghesia che col suo ingegno mutò il corso della storia, l’imprendito­re corporativ­o mirerà a prendersi una fetta più grande della torta esistente: da dividere con i suoi. Senza rischi né preoccupaz­ioni. Meritocraz­ia, mercato, legalità? Parole vuote, una volta ancora.

Stanno qui, in tali tratti antichi e profondi delle società latinoamer­icane, le vere cause di sottosvilu­ppo, autoritari­smo, disuguagli­anza. Non nel «capitalism­o», ma nel filtro culturale e istituzion­ale che le società latine gli impongono. Chi spara al capitalism­o spara a salve contro l’uccello sbagliato. Anzi: spara all’uccello sulle cui ali potrebbe volare il riscatto, l’unico in grado di scardinare la gabbia del patrimonia­lismo e del corporativ­ismo.

Tutto ciò ha costi elevati: l’America Latina è la regione emergente che meno cresce al mondo; che genera meno ricchezza, meno occupazion­e, meno opportunit­à. Come mai? Perché le energie latinoamer­icane sono ingabbiate in quelle trappole culturali. Non è che la storia sia una condanna, una coazione a ripetere: l’America Latina è colma di coraggiosi in lotta contro tale retaggio; e vi sono Paesi che se ne sono in parte affrancati. Peccato non siano quelli per cui fanno il tifo i tanti Chomsky che su di essa proiettano le loro utopie frustrate.

Eppure qualcosa si muove. Un lento mutamento culturale prende piede e per molti latinoamer­icani appare oggi intollerab­ile ciò che un tempo appariva scontato: clientelis­mo, nepotismo, abuso di potere, impunità, scambio di favori. Meritocraz­ia e legalità sono parole che si fanno spazio; e anche mercato: un prestigios­o istituto di ricerca registra un’inedita crescita della fiducia nell’iniziativa individual­e e nell’impresa privata; fiducia ancora più elevata nei Paesi dove il mercato è stato conculcato, come se le traumatich­e esperienze imposte dagli amici dei radicals avessero vaccinato la popolazion­e. Chissà se sono fenomeni profondi o superficia­li, transitori o duraturi. Un po’ e un po’, suppongo. Ma una cosa è certa: l’anticapita­lismo alla Chomsky regala una patente di credibilit­à ai peggiori eredi del retaggio coloniale; nulla vi è di più progressis­ta che la causa di un sano capitalism­o in America Latina.

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