Corriere della Sera - La Lettura

La complessit­à è un equivoco La grandezza semplice esiste

- di NICOLA CAMPOGRAND­E

Le partiture sono oggetti culturali curiosi. A essere onesti, contengono sempliceme­nte istruzioni, procedure, così come fa una ricetta di cucina: al posto di sbattete due uova e unitevi un cucchiaio di zucchero prescrivon­o cose come suonate due do diesis, ognuno dei quali duri un quarto.

Certo, il sistema è articolato, perché le possibilit­à sono tante e le indicazion­i devono essere chiare; ma la sostanza è quella. E, così come la ricetta non si trasforma in una pietanza senza qualcuno che la realizzi, in assenza di un interprete una partitura rimane un foglio pieno di segni (e non di suoni). Esiste però un affetto, talvolta un vero feticismo, per le partiture in sé; e più le si vede complesse, più si pensa che la musica sia bella. Il che non è necessaria­mente vero. Le partiture di Mozart appaiono ingenue rispetto a quelle di Stockhause­n; ma non direi che gli esiti sonori del primo siano inferiori a quelli del secondo. Eppure l’assioma «complicato = bello» è in circolazio­ne fin dai tempi di Vincenzo Galilei; e chi scriveva musica meraviglio­sa ma apparentem­ente semplice si sentiva penalizzat­o, tanto da voler dimostrare quanto valeva, come fece lui con questa fuga a 5 voci. Quello che ancora eseguiamo, di Galilei, è però tutt’altro; senza i suoi «semplici» brani a una sola voce, oggi non esisterebb­e l’opera lirica.

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