Corriere della Sera - La Lettura
La complessità è un equivoco La grandezza semplice esiste
Le partiture sono oggetti culturali curiosi. A essere onesti, contengono semplicemente istruzioni, procedure, così come fa una ricetta di cucina: al posto di sbattete due uova e unitevi un cucchiaio di zucchero prescrivono cose come suonate due do diesis, ognuno dei quali duri un quarto.
Certo, il sistema è articolato, perché le possibilità sono tante e le indicazioni devono essere chiare; ma la sostanza è quella. E, così come la ricetta non si trasforma in una pietanza senza qualcuno che la realizzi, in assenza di un interprete una partitura rimane un foglio pieno di segni (e non di suoni). Esiste però un affetto, talvolta un vero feticismo, per le partiture in sé; e più le si vede complesse, più si pensa che la musica sia bella. Il che non è necessariamente vero. Le partiture di Mozart appaiono ingenue rispetto a quelle di Stockhausen; ma non direi che gli esiti sonori del primo siano inferiori a quelli del secondo. Eppure l’assioma «complicato = bello» è in circolazione fin dai tempi di Vincenzo Galilei; e chi scriveva musica meravigliosa ma apparentemente semplice si sentiva penalizzato, tanto da voler dimostrare quanto valeva, come fece lui con questa fuga a 5 voci. Quello che ancora eseguiamo, di Galilei, è però tutt’altro; senza i suoi «semplici» brani a una sola voce, oggi non esisterebbe l’opera lirica.