Corriere della Sera - La Lettura
Contro la guerra e i comandanti I canti delle trincee costarono la galera fino al 1964
Testimonianze Un patrimonio che include anche ballate preesistenti. Così l’italiano univa le truppe
Cantavano i soldati della Grande guerra, cantavano i fanti nelle trincee, cantavano gli alpini e i bersaglieri, e cantavano pure gli arditi con le fiamme nere e il pugnale. E la novità era che tutti cantavano soprattutto in italiano, un italiano povero, elementare, quello però in cui le migliaia di contadini arrivati al fronte dal tutte le regioni italiane potevano comunicare. Stampati su fogli volanti negli anni di guerra, quei canti subito dopo il 1918 circolarono in raccolte spesso curate da chi in guerra c’era stato. E nei diari, nelle memorie che via via cominciarono a esser pubblicate (Piero Jahier, Paolo Monelli, i diari di guerra di Mussolini), compaiono sempre i canti dei soldati. Ora, a quel grande patrimonio non sempre studiato e raccolto con scrupolo e rigore è dedicato il volume Al rombo del cannon (Neri Pozza) firmato da Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto.
Come già i canti popolari tradizionali, anche i canti delle trincee riusano materiali più antichi e diversi di cui ripetono formule sempre uguali, solo che per l’esperienza diretta della guerra quelle formule si rivitalizzano e registrano fatti reali e situazioni vissute. Per esempio, Ta-pum riproduce il tipico rumore dei fucili dei cecchini austriaci. E nel celebre canto degli alpini Il te--
stamento del capitano (che è la ripresa di un’antica ballata, protagonista il marchese di Saluzzo, morto nel 1528) i versi «I suoi alpini ghe manda a dire/ che non han scarpe per camminar» rivelano la condizione reale di chi era al fronte: gli alpini non avevano scarpe giuste, i casi di congelamento furono numerosi. Così, per questa nuova capacità di raccontare la vita vera dei soldati, i canti della Grande guerra svolgevano anche l’ufficio di un giornale dal fronte, quasi una cronaca cantata. Certo, osservano gli autori, si operò da subito una forte censura privilegiando i contenuti eroico-patriottici e cancellando i canti contro la guerra e contro gli ufficiali che mandavano a morire i soldati. L’esempio più famoso è O Gorizia tu sei maledetta, che ancora nel ’64, al Festival di Spoleto, fruttò la denuncia per vilipendio delle forze armate contro chi l’aveva cantata. Nel libro gli autori ricostruiscono origini e testi di questi canti «proibiti». E ricordano che chi le cantava era denunciato e condannato a pene molto severe dai tribunali di guerra. «Ma non erano solo ballate e canti di protesta a essere puniti. C’erano — ricorda Jona — anche le strofette satiriche sul general Cadorna che “ha scritto alla regina”: un soldato che l’aveva intonata si prese un anno di galera».