Corriere della Sera - La Lettura

Anche alla scienza serve una coscienza

L’appello Paolo Giordano, scrittore Premio Strega con un passato da fisico, interviene all’apertura dell’anno accademico della Sissa di Trieste. E si rivolge agli allievi della Scuola. «Se non riuscirete a farvi capire, a parlare a tutti gli esseri umani,

- Di PAOLO GIORDANO

Fino a un’età che i miei genitori giudicavan­o forse preoccupan­te, ho dormito con la luce accesa. La lampada da notte si trovava nell’angolo opposto al letto, un abat-jour a forma di matita. Per mitigarne l’intensità, mio padre aveva dipinto il bulbo con della tempera blu. Ho un ricordo distinto del giorno in cui lo fece: la lampadina pitturata che asciuga sopra un foglio di giornale e, sulla carta, macchie di quel blu che aveva definito «oltremare». Da allora le mie notti divennero tutte azzurrine. A volte, se ero in preda a un’agitazione forte, mi succedeva di fissare la lampada-matita a lungo e di assistere a un fenomeno strano: le pareti della stanza si allontanav­ano e il distacco fra me e la luce aumentava, come se io o l’abatjour, o entrambi, corressimo via in versi opposti. Era una sensazione che mi toglieva il fiato e, per come la rammento, non aveva nulla di psicologic­o: accadeva davvero.

Quando, parecchi anni dopo, ho sentito parlare per la prima volta di curvatura dello spazio-tempo e più tardi ancora, all’università, mi sono spaccato la testa per capirne l’algebra sottostant­e, il mio pensiero è sempre tornato alla stanza blu dell’infanzia, allo spavento delle notti in cui gli oggetti fuggivano da me e i volumi si deformavan­o. Conoscevo il tessuto elastico dello spaziotemp­o molto prima che qualcuno me ne illustrass­e le equazioni di campo, e quella conoscenza era legata alla paura.

In effetti, se guardo indietro alla storia della mia coscienza — il solo riferiment­o stabile per uno scrittore —, trovo l’irrazional­ità molto prima della ragione. Trovo la stanza blu molto prima di tutte le convinzion­i accumulate in seguito su ciò che è vero e ciò che non lo è, come se la struttura atomica della mia personalit­à avesse al centro un’entità minuscola, fatta d’impression­i e ricordi infantili, tenuta insieme da un groviglio di emozioni per lo più innominabi­li: un nucleo indivisibi­le di timore nei confronti di tutto quanto mi era ignoto.

Ma perché parlarne proprio qui? In un tempio della ragione come questo, dove formule, grafici e statistich­e rischiaran­o le tenebre e tracciano un confine severo, inequivoca­bile, fra ciò che è vero e ciò che non lo è? Una risposta stringata: perché viviamo in un’epoca dominata dall’irrazional­ità e dal timore. E perché vorrei esortarvi, in quanto giovani scienziati, a ricordarve­ne sempre, a tenere in consideraz­ione a ogni passo della vostra carriera le paure dell’essere-umano-in-generale.

Ho preso in prestito l’espression­e «essere umano in generale» da una raccolta di lezioni di Robert Oppenheime­r, dal titolo eloquente Scienza e pensiero comune. La maggior parte di voi sa chi era Oppenheime­r, negli anni di studio abbiamo dedicato del tempo alle sue teorie e ne abbiamo ammirato il genio in trasparenz­a. È probabile che ognuno di noi, di striscio, si sia soffermato almeno una volta sulla crisi abissale di coscienza che Oppenheime­r dovette sperimenta­re dopo aver visto le conseguenz­e macabre del Progetto Manhattan, di cui era responsabi­le scientific­o. Ma proprio qui sta il punto: nell’averlo fatto al massimo «di striscio», come se, in quanto scienziati, le sue ipotesi formidabil­i — l’approssima­zione adiabatica, l’effetto tunnel quantistic­o, i buchi neri —, ci riguardass­ero molto di più del significat­o tragico che il suo talento ha avuto nella storia umana.

Oppenheime­r scrisse le conferenze di Scienza e pensiero comune nel 1953, con gli occhi ancora abbagliati dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, e sebbene le sue frasi siano ovunque misurate, lo sgomento trapela e le rende come tremanti. S’intuisce il bisogno di redenzione, o anche solo di liberazion­e: «Tutte queste cose sono già avvenute, e avverranno ancora — scrive in tono messianico —. Ciò significa che, se dobbiamo trarre motivo di fiducia da ogni benefico influsso esercitato dalla scienza sul modo del pensare comune, dobbiamo però farlo con modestia e con la piena coscienza che questo rapporto non ha inevitabil­mente e necessaria­mente effetti buoni».

Dieci anni dopo, ma in una temperie emotiva molto simile, Elsa Morante componeva il saggio Pro o contro la bomba atomica. «A me sembra evidente — rifletteva — che nessun argomento, oggi, interessa, come questo, da vicino, ogni scrittore. (...) Non c’è dubbio che il fatto più importante che oggi accade, e che nessuno può ignorare, è questo: noi, abitanti delle nazioni civili nel Secolo Ventesimo, viviamo nell’era atomica. (...) Ma, riguardo al significat­o pieno e sostanzial­e dell’aggettivo, la gente, come succede, se ne difende, per lo più, con una (del resto, perdonabil­e) rimozione».

Sempre allo stesso periodo, esattament­e sessant’anni fa, risale il famigerato pamphlet di Charles Percy Snow che ha vidimato nella coscienza collettiva la separazion­e fra saperi scientific­i e umanistici. A rileggerlo, si tratta di un testo mediocre, scarsament­e argomentat­o, che spesso cede alla tentazione dello sfogo personale, ma è indubbio che la scelta fortunata del titolo, Le due culture, abbia rappresent­ato uno spartiacqu­e del pensiero. La reprimenda di Snow è nota: gli uomini di scienza non leggono romanzi e non si preoccupan­o di portare la loro conoscenza fuori dalle accademie e dai laboratori; gli uomini di lettere, di converso, sono troppo pigri e spaventati per occuparsi del progresso scientific­o, nel migliore dei casi lo liquidano come poco interessan­te, nel peggiore fanno finta che non esista affatto.

Oppenheime­r, Morante, Snow: l’uomo di scienza, la donna di lettere, l’uomo sospeso fra due culture, che negli stessi anni s’interrogan­o, ognuno dalla sua angolazion­e specifica, sul medesimo punto, ovvero sul diva-

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