Corriere della Sera - La Lettura
L’umanità non si misura
Prospettive Che cosa definisce l’uomo? Come si calcola il suo valore? Il denaro che possiede, i follower sui social, il potere? «La Lettura» lo ha chiesto a tre studiosi: un fisico di fama mondiale, un teologo (e filosofo e matematico) di Oxford, un noto
L’ossessione di misurare. E misurarsi. Il conto in banca, le relazioni, i follower e i like. I chilometri percorsi (sul tapis roulant), le ore di lavoro, le cene fuori, i pollici della tv. Qual è l’unità di misura dell’umanità? E chi — o che cosa — definisce l’uomo? La ricchezza, il successo, il potere? L’appartenenza a una nazione, a una fede? Alla vigilia della Conferenza di Parigi, che rivedrà il sistema internazionale delle unità di misura, tre voci collegate via telefono — Peter Hunter da Oxford, Guido Tonelli da Pisa, Silvano Petrosino da Milano — provano a rispondere portando sul tavolo della riflessione le loro competenze: Hunter, frate domenicano del collegio di Blackfriars a Oxford, studi in Matematica, Teologia, Filosofia, è docente nell’ateneo inglese; Tonelli, fisico del Cern di Ginevra, insegna Fisica generale all’Università di Pisa, è ricercatore associato dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare e ha partecipato alla scoperta del bosone di Higgs; Petrosino è professore di Teorie della Comunicazione e Antropologia religiosa e Media all’Università Cattolica di Milano. Il teologo, lo scienziato, il filosofo. Partono (e per certi versi finiscono) con una tesi antica, del V secolo prima di Cristo, ancora molto attuale: «L’uomo è la misura di tutte le cose».
SILVANO PETROSINO — Certo, quella di Protagora è una buona definizione. Ma qual è lo strumento con cui l’uomo misura? Questo è il problema: l’uomo misura con una misura che non controlla mai totalmente. Noi vorremmo catalogare, ordinare, collocare con precisione la realtà che ci circonda, cercando di controllare ciò che sfugge al nostro controllo. In questo senso spesso ci convinciamo che la misura dell’uomo sia, per esempio, il godimento. O il potere. Ma è un inganno: l’uomo resta irrimediabilmente abitato da una misura che non riesce a misurare. La scienza non è la soluzione?
GUIDO TONELLI — Sarei molto scettico se saltasse fuori un criterio di valutazione delle persone. Come dico ai miei studenti all’inizio del corso, non possiamo misurare tutto. È Galileo a spiegarlo: è misurabile solo ciò che è identico, replicabile, e che non cambia. Ma le paure, l’amore, i sentimenti fanno parte della sfera umana, e in questi casi misurare, che è un’operazione standard nella scienza, diventa quasi impossibile, servono molte
precauzioni. Perché se da una parte non esiste criterio scientifico per misurare l’umanità, dall’altra so che alcuni «sistemi di misurazione» sono scelti in base a ragioni politiche o sociali.
Quindi stiamo dicendo che non esiste, o che non abbiamo ancora trovato, l’unità di misura dell’umanità?
PETER HUNTER — Esattamente: non possiamo misurare gli esseri umani e nemmeno semplificarli attraverso numeri. È vero che la nostra società tende a classificare, a cercare regole — penso, in politica, ai criteri con cui distribuire il denaro pubblico. Ma gli uomini sono troppo complessi e importanti per essere ridotti a una formula. È vero, c’è un peso, un’altezza, ma questi parametri non ci dicono niente. Piuttosto, dovremmo sforzarci di capire come davvero funzionano le comunità: quelli sono indicatori importanti, in grado di parlarci — molto più di un elenco — della vita umana.
SILVANO PETROSINO — Il riferimento alla scienza è importante e ci serve per capire la differenza tra esperimento ed esperienza. L’esperimento è alla base della scienza esatta, è misurabile e riproducibile, ma l’esperienza umana è qualcosa che non si può pienamente ripetere e pienamente misurare. È la difesa di questa specificità che ci permette di comprendere il richiamo in qualche modo inevitabile alla fede e all’arte. Questi due domini, il religioso e l’estetico, sono una difesa di un’esperienza che non vuole essere ridotta a esperimento.
GUIDO TONELLI — Non esiste unità di misura dell’umanità. Esistono invece le scelte — politiche, sociali, economiche — delle società, all’interno delle quali gli uomini e le donne sono giudicati. Nella nostra i criteri di valutazione — esasperati dai media — si riferiscono al possesso di denaro, potere, successo. Ma se pensiamo a certe tribù, dove contano i narratori di storie, la gerarchia cambia completamente. Ecco, anche da noi occorrerebbe una diversa gerarchia. Il valore delle persone andrebbe misurato non con quello che posseggono ma con quello che danno, alla piccola comunità o all’umanità nel suo complesso.
La nostra tendenza a misurare si limita al mondo che vediamo? A un piccolo giardino locale? O misurare vuole dire anche aspirare a qualcosa di altro da noi, che sia Dio o una scoperta scientifica?
PETER HUNTER — Come Tonelli, penso che ogni società abbia i suoi sistemi di valutazione. Non credo, però, che tutto sia «valutabile»: esistono elementi che ci parlano della grandezza dell’uomo, di un brillante intelletto, di un grande cuore. E ci sono persone che per questo motivo ci attraggono a prescindere dalla loro provenienza, dalla loro cultura. Io vengo da un Paese, il Sudafrica, dove un uomo, Nelson Mandela, ci ha traghettato verso un nuovo futuro, anche se imperfetto. San Paolo dice che gli esseri umani si misurano dal pieno sviluppo di Cristo: credo sia vero, Gesù è l’essere umano perfetto che ci dà la misura dell’umanità. Certo, non mi aspetto che questo pensiero sia preso seriamente in una società secolarizzata come la nostra, ma ribadisco: anche da un punto di vista razionale ci sono vite che esaltano e rendono fiorente l’umanità e altre che la mortificano, la rendono misera. Ha dunque senso prendere come riferimento persone che ci conducono verso ciò che è grande e ciò che buono.
Misurarsi vuol dire confrontarsi allora?
PETER HUNTER — L’uomo condivide la sua umanità con gli altri, si riconosce nei suoi simili. Spesso il nostro modo di valutare è superficiale, ma se pensiamo a chi, nei secoli, ha migliorato le condizioni umane, è sempre riconoscibile per un grande cuore, una grande mente.
GUIDO TONELLI — Ma per fare questo serve la distanza. Del tempo. Anche chi si opponeva a Mandela oggi ne riconosce la grandezza. In questo senso dobbiamo aspettare: è il futuro a definire il passato. Anche nella scienza: l’importanza di Euclide si capisce meglio oggi, dopo 2.300 anni. È pericoloso dare giudizi di valore nei confronti di pensatori, artisti e intellettuali contemporanei. Lo facciamo, ma a nostro rischio.
Quindi è il tempo la chiave di questa riflessione? È il tempo l’unità di misura che ci definisce? Il futuro potrebbe essere un lusso che non possiamo permetterci: abbiamo il «tempo» di aspettare? GUIDO TONELLI — L’evoluzione dell’umanità è un processo complesso. Guardandosi indietro è più facile ragionare con lucidità. PETER HUNTER — Certo, è più facile capire in retrospettiva, ma non sono d’accordo sul fatto che serva ne- cessariamente il tempo per riconoscere alcune grandi personalità. Come ci sono stati i Platone, gli Euclide, i Puccini, i Galileo, allo stesso modo sono esistiti ed esistono uomini e donne ordinari che si sono presi cura dei più poveri, dei più deboli, che hanno avuto cuore e cervello, magari non nello scoprire una formula, ma nel capire i bisogni del loro tempo. E che sono stati dimenticati. Noi lottiamo per essere grandi. Dovremmo lottare per lasciare alle nuove generazioni un mondo migliore di quello che abbiamo trovato.
SILVANO PETROSINO — Il riferimento al tempo è essenziale perché l’uomo è finito e mortale e, a dispetto di tutto, ne prende coscienza mentre è ancora in vita: non ha bisogno di attendere di morire per sapere che è mortale. Questa consapevolezza entra inevitabilmente nella sua visione della realtà e vi entra in modo negativo spingendolo per esempio all’avidità, ma interviene anche in modo positivo aprendolo al tema della generatività. Il generativo è sempre contro l’avidità. In questo senso la misura legata al tempo e alla finitezza può essere la migliore condizione per aprire al possibile, a un’alterità oltre il proprio presente.
Ricapitolando: la misura dell’uomo deve tenere conto di spazio e tempo, locale e globale, grandezza riconosciuta e grandezza «silenziosa»?
GUIDO TONELLI — Sì, occorrerebbe distinguere fra i diversi piani spaziali e temporali e le tante comunità che costituiscono l’umanità nel suo complesso. Sono terreni diversi che richiedono scale di valutazione appropriate.
In un mondo così complesso, spesso attraversato da conflitti, esiste un terreno comune su cui posare lo sguardo?
PETER HUNTER — Penso che sia molto difficile impegnarsi «globalmente», prendersi carico dell’umanità in generale, se non per brevi periodi e per avvenimenti di forte impatto emotivo, penso a uno tsunami. Cresciamo in piccole comunità, restiamo sulla terra per pochissimo tempo, abbiamo prospettive locali: è difficile avere una visione condivisa. E se da una parte è importante (e complesso) sollevare lo sguardo oltre il nostro piccolo giardino, dall’altra bisogna sospettare di chi ha ricette semplici e per tutti: la storia ci insegna che in molti casi quelle ricette erano sbagliate, a volte dannose.
Il terreno comune è capire che il valore dell’uomo non è stabilito dal suo denaro o dal successo, ma dalle sue azioni nei confronti delle comunità, siano esse locali o globali, dalle soluzioni che trova ai problemi, dalle sue scoperte e visioni.
Per quanto riguarda la ricerca di una misura comune, rispondere è molto semplice e allo stesso tempo impossibile. Per i viventi la misura è la vita, e il bene è tutto ciò che fa vivere. Questo in generale, perché poi succede che i gruppi più potenti impongono la loro misura. Un esempio? È stata introdotta la categoria della qualità della vita dimenticando che la vita stessa è la qualità. Così ha prevalso la dittatura del potente che ha introdotto categorie sue, diverse da quelle di altri uomini che tuttavia vivono «felicemente». Per chiarirci: ritengo che si debba criticare l’imposizione di un unico criterio per definire la vita o la sua qualità.
Filosofo, teologo e scienziato sono dunque d’accordo sul fatto che nel migliore mondo possibile l’uomo è valutato in base al contributo che dà ai suoi simili. Ma non viviamo nel migliore mondo possibile....
Lo so, è difficile estendere questi ragionamenti alla società globale, così abituata a giudicare in modo veloce e superficiale.
Non abbiamo alternativa: noi dobbiamo, ma soprattutto possiamo, vivere insieme. Il filosofo, lo scienziato, l’artista, i ricchi e i meno ricchi, i sani, i meno sani. Ciò che è essenziale è che una misura non finisca per imporsi sulle altre. C’è stato un periodo in cui l’unica misura era quella religiosa e tutto quanto era al di fuori veniva considerato irrazionale, negativo. Oggi io vedo il rischio che si imponga come unica misura quella scientifica. Penso che invece sia assolutamente importante non ridurre l’ampiezza della razionalità umana alla forma della razionalità scientifica. C’è una ragione che va al di là dell’intelligenza.