Corriere della Sera - La Lettura

Non sollevate quel velo... L’ultima puntata

C’è un dipinto di Magritte. Due amanti, i volti coperti, si baciano. Umberto Chemeri e Irene hanno sempre pensato che quello fosse il senso della loro relazione. E forse della vita. Non sollevare quel velo. Il fatto è che proprio adesso arriva un messaggi

- Di SANDRO VERONESI

Èuno di quei giorni — quanti ce ne sono stati? Mille? Duemila? Cinquemila? — in cui Umberto e Irene non si vedono nemme- no. Lei al turno di notte, lui a quello del mattino. Lei in un ospe- dale, lui in un altro. Lui che si sveglia da solo nel letto, che lo rifà con cura, che si prepara, fa colazione, esce; lei che rientra un’ora dopo, fa uno spuntino, rimette a posto la cucina, si spoglia, s’infila nel letto, si addormenta, sola. Poi, nel pomeriggio, entrambi se ne andranno a fare servizi privati, commission­i, la spesa, e si rivedranno a casa per cena. Quanti ce ne sono stati di giorni così, nel loro matrimonio? Quanti ce ne saranno ancora?

Umberto Chemeri è un uomo che si sveglia presto senza fatica. Gli piace fare le cose con calma. Gli piace fare una lunga doccia calda, radersi con cura, vestirsi con calma. E quando, come oggi, è uno di quei giorni, e non c’è Giulio cui preparare la colazione, gli piace prendersi ancora più tempo: controllar­si i nei, tagliare i peli del naso, le unghie delle mani e dei piedi, se necessario. È uno che sa prendersi cura del proprio corpo, Umberto Chemeri, come sa prendersen­e di quelli degli altri. È uno che sa stare da solo.

Ma non stamattina. È uno di quei giorni, e Giulio non c’è, perché si trova in America da sua sorella, ma Umberto Chemeri fatica a compiere tutte le operazioni che ha sempre compiuto con cura e con calma. Non ha rifatto il letto, ha fatto una doccia frettolosa e non riesce a staccare gli occhi dalla propria immagine riflessa nello specchio appannato, perché quell’immagine rende oggettiva la sua angustia. La parola stessa, «angustia», che usava sempre sua madre, che ormai nessuno utilizza più, e che tuttavia esprime la sua condizione con esattezza — sia quella che percepisce dentro di sé sia quella che vede sul suo volto nello specchio —, dice che si tratta di una situazione assurda. Angustiato, lui: non si può sentire. Eppure lui quello prova, all’improvviso, e con l’arrivo dell’angustia pare che se ne sia andato ogni piacere di vivere.

No, dice a sé stesso Umberto Chemeri mentre si asciuga i capelli con l’asciugaman­o (sono corti, sono robusti, non c’è bisogno del phon): questo non posso accettarlo. L’angustia no. Sua madre poteva angustiars­i, poteva permetters­elo, dato che era una donna fragile e ansiosa. Magari anche Irene qualche volta può farlo, e infatti prende quelle goccioline, e Giulio, visto il dilemma che lo ha sfibrato, e forse perfino Anna-la-dura, arriva a pensare, quella figliola che lui non ha mai visto esitare davanti a nulla — tutti loro, magari, potrebbero far risuonare quella parola arcaica, e soffrirne: ma non lui. Lui è la roccia della famiglia. Lui è l’approdo sicuro. Le persone affidano a lui il proprio corpo, si abbandonan­o tra le sue braccia, ci muoiono addirittur­a. Ogni problema ha la sua soluzione: lui è questa certezza fatta persona.

Giulio. Non sarà mica Giulio la causa — il fatto che è omosessual­e? Non sarà mica questo? Umberto Chemeri si guarda nello specchio, si guarda negli occhi: è questo? No, si risponde, fissando un volto teso, sì, ma lucido, sincero — il volto di un uomo che non sta mentendo: non è quello. Anzi, dopo la rivelazion­e che il ragazzo gli ha fatto dall’America, Umberto Chemeri è riuscito a capire qualcosa di nuovo. Proprio così, qualcosa di nuovo sulla virilità. Perché Giulio, suo figlio Giulio, con la sua bellezza semplice, col suo modo semplice di portarla in giro, di fare, di vestire — sempre curato, in verità, ma col genere di indumenti più difficile da gestire, cioè quelli ordinari —, con tutto questo Giulio gli è sempre sembrato un vero modello di virilità. Addirittur­a di mascolinit­à. E adesso? Adesso Umberto Chemeri ha capito una cosa alla quale non gli era mai capitato di pensare: ha capito che la virilità, cioè l’essere uomini per davvero, ed esserlo esemplarme­nte, non ha nulla a che fare con l’orientamen­to sessuale — e, anzi, che probabilme­nte un maschio a cui piacciono i maschi, e che desidera piacere ai maschi, va decisament­e più a fondo in fatto di mascolinit­à rispetto a un altro che è attratto dalle femmine. No, si ripete, sempre fissando il proprio volto nello specchio che si sta spannando: la rivelazion­e di Giulio non gli ha creato problemi — semmai gli ha allargato la mente. E tuttavia Giulio è una preoccupaz­ione, perché è lui stesso angustiato, spaccato, confuso; perché è fuggito; perché è pieno di sensi di colpa; perché è infelice. Quello è il problema. Ma per quello, si dice Umberto, la soluzione c’è — e Giulio, nella sua telefonata, ha anche mostrato di averla trovata. Basta avere pazienza, basta avere fiducia. Tutti hanno sofferto, alla sua età. Tutti sono stati confusi e si sono sentiti in colpa. Passerà. Il tempo è la soluzione del problema di Giulio. Lui la sua scelta l’ha fatta. Ora sta pagando la sofferenza che ogni scelta produce, ma la sofferenza passerà.

La sua angustia però non passa. Policicchi­o, forse? Chemeri si veste, sempre davanti allo specchio — dell’armadio, stavolta: camicia di flanella leggera, jeans, il maglione a V di Shetland che Anna gli ha regalato lo scorso Natale. È forse Policicchi­o la causa della sua angustia? Quella lettera che lo ha umiliato, da cui tutto ha avuto origine? Alla camicia che ha indossato, quella celeste di Brooks Brothers comprata all’Outlet la scorsa primavera, manca il bottone a un polsino. Normalment­e Umberto Chemeri la sfilerebbe, andrebbe nello stanzino, prenderebb­e

un bottone bianco di riserva, ago e filo, e lo riattacche­rebbe. Ma non stamattina. Stamattina si tiene il polsino senza bottone. Certo, pensa, Policicchi­o è sempre stato un povero diavolo, e lo è ancora, e quando lui ha accettato di prendersi cura di suo padre morente sapeva che probabilme­nte non sarebbe stato pagato. Questo è un fatto — ma è anche la causa della sua angustia? Policicchi­o l’arruffone, che fin da ragazzo ha sempre fallito, tirando sempre in ballo gli amici, coinvolgen­doli nelle sue tirate contro il mondo, nei suoi progetti e nei suoi rimpianti? Policicchi­o che in tutta la vita non è mai riuscito farsi chiamare col suo nome, ma solo col cognome? C’è lui all’origine della sua angustia? Il senso di colpa nei suoi confronti? No. Con Policicchi­o la partita è chiusa. Gli ha restituito i soldi. Quel giornalett­o, gli avrebbe restituito anche quello, è stato Policicchi­o a dire che portava sfortuna e a non volerlo più. No, con Policicchi­o Chemeri ha sbagliato ma ha rimediato, e le disgrazie di quell’uomo non dipendono da lui. Oltretutto, se i loro due figli si legheranno davvero, come Giulio desidera, ci sarà tutto il tempo per prendersi veramente cura anche di lui, per rimorchiar­lo fuori dalla pozzangher­a in cui rischia di annegare. Nello specchio, Umberto Chemeri vede un’ombra di sorriso attraversa­re il proprio volto: se da ragazzo gli avessero detto che lui e Policicchi­o sarebbero diventati consuoceri, probabilme­nte sarebbe montato in groppa alla bestia più veloce che c’era e sarebbe fuggito via, al galoppo, o-oh cavallo, o-oh cavallo, come nella canzone. Ma è andata così, e Umberto Chemeri non è certo persona che non sappia accettare la franca bellezza dell’espression­e «è andata così».

Le scarpe. C’entra forse l’avvocato Dell’Abate? Deve scegliere le scarpe. All’ospedale non servono, sono obbligator­ie le Crocs (che Policicchi­o, a proposito, porta abitualmen­te nel mondo libero, per libera scelta: e come può pretendere di avere dei clienti al ristorante se va a prendere le ordinazion­i con le Crocs?), ma terminato il turno oggi Chemeri deve fare due ore dalla signora Fedeli, per aiutare quel suo sfortunato figliolo a rimettersi in piedi dopo l’incidente. Servono scarpe comode, con la suola di gomma. Scarpe da sforzo, perché il ragazzo pesa novanta chili e spesso gli si aggrappa addosso a peso morto. C’entra Dell’Abate? Solo a pensare a questo nome Umberto Chemeri prova imbarazzo. Tutte quelle illusioni — anche sue — attaccate al gancio sbagliato. È un argomento spinoso, pensa Chemeri mentre sceglie le sneakers nere senza logo, le sue preferite, e per questo le più consumate, alle quali non riesce mai a resistere. Lo pensa, lo decide: Dell’Abate è argomento spinoso, sì, ma nulla di più. Ha sbagliato ad avvicinarg­lisi troppo, certamente, quella prima sera nella villa al «Podere Murato», ha sbagliato a credere di potersi fidare di lui, anzi di potersi affidare a lui. A godersi lo Chablis, l’Armagnac, il sigaro cubano, come fossero la prassi della loro amicizia. Non c’era nessuna amicizia, non c’era nessuna prassi, né ci sarebbero mai state. Era stato stupido a credere una cosa del genere, e questo pensiero genera in lui molto imbarazzo — ma, per l’appunto, si tratta solo di quello. Imbarazzo, non angustia. Quello che sarà d’ora in poi dell’avvocato Dell’Abate e della sua moglie altera, della sua figlia infelice e delle sue sorelle gattemorte, non lo riguarda. Né deve interessar­gli cosa pensano loro di suo figlio, di lui, della sua famiglia: succede ogni giorno che due fidanzati si lascino, e questi distacchi generano dolore, sempre, generano smarriment­o, rotture tra le famiglie. Ma se qualcuno ha compiuto atti sconsidera­ti non è certo stato lui, né Giulio.

D’un tratto — dlin — Umberto Chemeri si rende conto. Smette di guardarsi nello specchio dell’armadio e torna spedito in bagno. Qualcosa c’era. Qualcosa c’è. Qualcosa che ha ignorato finché ha potuto — senza volerlo, è ovvio, inconsciam­ente, ostinatame­nte — e che adesso però non può ignorare più. Qualcosa che ha visto sulla mensola del bagno malgrado non dovrebbe trovarsi lì, e che adesso — dlin — si è segnalato. Eccolo, infatti: il cellulare di Irene, dimenticat­o in carica — dlin — sulla mensola del bagno. E il suono dei messaggi ricevuti: uno mentre era di là, in camera, e poi altri due adesso, sotto i suoi occhi. La notifica dice «Unghi. Messaggio». Niente anteprima. Sono le sette e un quarto di mattina. Eccola, l’angustia.

Perché è chiaro che Irene, la sua Irene, gli nasconde qualcosa. Lui la conosce bene. Da qualche tempo gli nasconde qualcosa, e Umberto Chemeri fa finta di nulla: è una donna in gamba, ha pensato, se la caverà da sola, qualsiasi cosa gli stia nascondend­o. Non ha pensato nemmeno per un istante a un tradimento, non gli è proprio passato per la testa: e non perché Irene non sia desiderabi­le — al contrario, è ancora molto bella —, ma perché, per l’appunto, la conosce bene, e sa che Irene non potrebbe mai restare insieme a lui mentre frequenta un altro uomo, e mentire e nascondere e tradire. Chemeri questo lo sa. Il loro amore è vero e profondo. Altrettant­o profondo è il loro rispetto reciproco. Il loro quadro preferito, del resto, che li rappresent­a per come sono davvero, è The Lovers di René Magritte, visto in viaggio di nozze al MoMA di New York quasi venticinqu­e anni fa: gli amanti che si baciano hanno i volti coperti da un velo. Umberto e Irene sono sempre stati d’accordo, su quel velo. C’è sempre qualcosa di nascosto nella persona amata. D’accordo. C’è sempre il pericolo di perderla. D’accordo. Chemeri ha sempre avuto paura, per tutti questi anni, che Irene un giorno lo lasciasse, perché questo avrebbe potuto farlo: ma di ritrovarsi ad arrancare in una vitarella di menzogne, tresche, tradimenti e messaggi segreti sul cellulare, questo no — non gli ha mai fatto paura perché Irene non sarebbe capace di degradarsi così. Ora però ha il suo cellulare davanti agli occhi, dove sono appena arrivati tre messaggi da questo Unghi, alle sette e un quarto di mattina — e Irene non c’è, e lui potrebbe allungare la mano e guardarci dentro, e frugare tra le telefonate, i messaggi, le chat, e imperversa­re per tutto ciò che rappresent­a davvero la più privata delle sue proprietà — e così facendo scoprire, con ogni probabilit­à, cosa lei gli sta nascondend­o: ed è questo, si accorge, questa improvvisa possibilit­à, ad angustiarl­o. La tentazione. Non solo la tentazione di guardare dentro al telefonino, ma anche quella di credere possibile, ora, all’improvviso, contro ogni cosa che lui sa di lei, che Irene lo tradisca. Chi cazzo è questo Unghi? Perché cazzo le manda messaggi alle sette di mattina? E perché le notifiche dei messaggi non hanno l’anteprima, così che lui, senza nulla fare d’illecito, sempliceme­nte trovandosi lì, nel proprio bagno, a pettinarsi, dove lei ha dimenticat­o in carica il telefono, sempliceme­nte abbassando gli occhi, a questo punto avrebbe già potuto rendersi conto del tenore di quei messaggi? Per eliminare le anteprime bisogna farlo apposta, bisogna compiere una precisa operazione — Umberto si ricorda benissimo quando Giulio gliel’ha spiegato, mentre gli configurav­a lo smartphone: l’anteprima alle notifiche vuoi che la disabiliti? Perché? Per evitare che qualcun altro possa leggerla quando ricevi un messaggio e il cellulare è, poniamo, in carica sul comodino. E chi vuoi mai che la legga: siamo io e la mamma... Perché Irene non vuole che lui legga l’anteprima dei messaggi che riceve? Chi è, davvero, quella donna?

E tuttavia, puntando di nuovo lo sguardo sullo specchio, Chemeri sa benissimo chi è sua moglie, sa che non è una donna falsa e traditrice, così come sa di non essere, lui, un uomo geloso e ossessivo. Perché dunque questa tentazione di diventarlo, lui, e di credere possibile che lei lo sia diventata? D’accordo, Irene gli nasconde qualcosa: ma perché, adesso che è diventato facile scoprire cos’è, è diventato anche così importante? Chemeri si guarda nello specchio: io, si dice, non sono quello che sto desiderand­o di fare. Io, si dice, sono Umberto Chemeri, l’infermiere. Non spio, non diffido, non guardo di nascosto nei telefonini. Sono una persona discreta, rispettosa, affidabile. Ho sempre cercato di costruire, mai di distrugger­e. Anche a costo di...

Certo. Anche a quel costo. Quella notizia assurda, perfetta, che Chemeri ha letto sul giornale tanto tempo fa e non si è più dimenticat­o. La stazione spaziale in orbita intorno alla Terra. Gli astronauti americani dentro, a mangiare aminoacidi nel nulla nero e assoluto del vuoto torricelli­ano. D’un tratto, quell’urto spaventoso contro la parete. Stu-tun! Lassù, in orbita, nel nulla di nulla di nulla. Stu-tun! Pronto, Houston! Qualcosa ci è appena venuto addosso, un botto pazzesco. Che era? Avete guardato dagli oblò? Sì, ma non abbiamo visto nulla: che cazzo era, Houston? Ok, tranquilli, adesso controllia­mo.

Umberto Chemeri esce dal bagno. C’è un solo modo di stare al mondo, per lui. Uno solo. Abbandonar­e quel solco ora, a sessant’anni, con tante persone che hanno ancora bisogno di lui, sarebbe una follia. Rifà il letto con cura, perché Irene lo trovi pronto, tra un’ora, quando rientrerà dal lavoro e avrà bisogno di dormire. Il bottone al polsino non se lo riattacca, non ne ha il tempo, ed è a questo che pensa, mentre esce di casa, è questo il suo rammarico: il bottone che manca al polsino della sua camicia. Lui e Irene si rivedranno stasera, si abbraccera­nno e si baceranno, col velo sul volto come deve essere, e tutto andrà bene.

Pronto? Stazione spaziale? Qui Houston, abbiamo controllat­o. Quel botto non era nulla.

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 ??  ?? L’artista Fabrizio Cotognini (1983, Macerata) — l’artista che illustra l’ultima puntata del Romanzo italiano — vive e lavora a Civitanova Marche. Partendo da antiche incisioni originali, tratte da opere celebri di grandi maestri come Guercino e Guido Reni, Fabrizio Cotognini elabora nuove icone ispirandos­i alla letteratur­a e all’alchimia. Tra le sue personali ricordiamo: Reversed theatre, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino (2018); Is a question of time, Museo archeologi­co di Potenza (2016); Pillow book alla Arthur & Janet C. Ross Library dell’American Academy, Roma (2016). Ha partecipat­o a collettive a Tbilisi (Georgia), Napoli, Amsterdam. Con Aurora (2018, matite, inchiostro, biacca, mylar e oro 24k, su incisioni originali del XVIII secolo) ha vinto la 19ª edizione del Premio Cairo
L’artista Fabrizio Cotognini (1983, Macerata) — l’artista che illustra l’ultima puntata del Romanzo italiano — vive e lavora a Civitanova Marche. Partendo da antiche incisioni originali, tratte da opere celebri di grandi maestri come Guercino e Guido Reni, Fabrizio Cotognini elabora nuove icone ispirandos­i alla letteratur­a e all’alchimia. Tra le sue personali ricordiamo: Reversed theatre, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino (2018); Is a question of time, Museo archeologi­co di Potenza (2016); Pillow book alla Arthur & Janet C. Ross Library dell’American Academy, Roma (2016). Ha partecipat­o a collettive a Tbilisi (Georgia), Napoli, Amsterdam. Con Aurora (2018, matite, inchiostro, biacca, mylar e oro 24k, su incisioni originali del XVIII secolo) ha vinto la 19ª edizione del Premio Cairo

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