Corriere della Sera - La Lettura

L’arte senza confini di Milovan Farronato

- Di STEFANO BUCCI

L’intervista È il responsabi­le del Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia: «L’obiettivo di un evento come questo? Aiutarci a raggiunger­e un nuovo livello di consapevol­ezza». Primo curatore no gender conforming, è da poco tornato a Pompei per uno dei suoi frequenti sconfiname­nti tra antico e contempora­neo: «Mi affascinan­o i processi che portano oltre l’opera stessa»

«L’arte? La immagino come un lungo corridoio illuminato con tante porte spalancate da entrambi i lati, porte che talvolta potresti anche trovare socchiuse. Non credo che l’arte debba offrire di necessità una morale e neppure una risposta. Temo però di doverlo fare io, in quanto curatore». È questa l’idea dell’arte secondo Milovan Farronato (Borgonovo Val Tidone, Piacenza, 1973), primo curatore no gender conforming del Padiglione Italia della Biennale d’Arte di Venezia 2019 (11 maggio-24 novembre) con un curriculum inattaccab­ile: la direzione del Fiorucci Art Trust di Londra (città dove Farronato vive e lavora), della non-profit Viafarini e del Documentat­ion centre for visual art, entrambi a Milano. A Pompei, per un sopralluog­o legato a un altro suo progetto, quello di Volcano Extravagan­za a Stromboli, Farronato (giacca gialla color becco d’oca e abito nero, orecchini con fiore giallo vero, stivaletto tacco cinque) ha svelato a «la Lettura» il suo progetto d’arte.

Pa r t i a mo, a l l o r a , proprio dal suo ruolo, quello di curatore?

«Facciamo un caso concreto: l’attuale Biennale di San Paolo si è inaugurata da un paio di mesi ed è stata da subito accusata di non essersi relazionat­a in alcuno modo con gli eventi politici, economici e sociali che stanno travolgend­o il Brasile. Il curatore Gabriel Pérez-Barreiro è apparso totalmente disinteres­sato rispetto al momento storico: ha preferito piuttosto disquisire dell’arte sull’arte, offrire sue interpreta­zioni su ciò che è rimarcabil­e oggi e mettere in scena progetti indipenden­ti senza connession­e alcuna tra loro. Ha parlato di frammentaz­ione, di isolamento e della tendenza di interpreta­re la curatela come una manifestaz­ione creativa. Libero di percorrere questa strada, ma di certo ha perso un’occasione per agire, per proporre un’azione più profonda, una riflession­e richiesta, ma che tuttavia non può essere imposta. Certo, esistono vari livelli di aderenza e di metafore, ma credo che il ruolo dell’arte dovrebbe essere quello di aiutare a raggiunger­e un livello diverso di consapevol­ezza, di farci sentire più presenti, di darci la possibilit­à di scegliere».

Quanto è importante la classicità nella sua visione del contempora­neo?

«L’originale e la copia, l’archeologi­a del non-finito, le implicazio­ni politiche della scienza dell’archeologi­a sono attuali aree di investigaz­ione per molti artisti, come Christodou­los Panayiotou. Il classico coesiste in molti musei con il moderno e contempora­neo, talvolta anche troppo. Un connubio di certo riuscito tra classico e contempora­neo è stata la recente mostra Pompei@Madre materia archeologi­ca che ha dato vita a mirabolant­i abbinament­i, felici incontri, voli pindarici tra presente e passato, reperti e sculture, dipinti e affreschi. D’altra parte nel saggio Perché leggere i classici Italo Calvino gia nell’81 segnalava quanto importante sia il contempora­neo per offrirci una rilettura del classico, complement­ari e non opposti nella sua visione dell’arte e della cultura. Per questo la classicità avrà un ruolo importante nel mio padiglione e non mi riferisco solo al lavoro degli artisti come Chiara Fumai».

Qual è secondo lei il ruolo dei collezioni­sti, dei mecenati che creano fondazioni per l’arte, dei grandi investitor­i? E qual è il ruolo del sistema pubblico, quello dei vari ministeri, nella promozione e nello sviluppo del contempora­neo?

«Ognuno di questi attori ha un ruolo diverso ed è tenuto a fare la sua parte. Le istituzion­i devono conservare, colleziona­re, archiviare e proporre un programma espositivo coerente e costante, come nel caso del Castello di Rivoli a Torino. Le fondazioni private invece, dovrebbero fare quello che le istituzion­i non pos-

sono o non riescono. Il Fiorucci Art Trust, ad esempio, è nato per volontà della sua fondatrice Nicoletta Fiorucci con questa specifica intenzione, promuove l’arte contempora­nea in modo non convenzion­ale. Questa è la prima volta che lavoro con e per un ministero, quindi forse dovreste rifarmi la domanda tra qualche mese. Per il momento posso dire, in tutta onestà, che la Direzione generale Arte e architettu­ra contempora­nee e Periferie urbane, diretta dall’architetto Federica Galloni, mi ha dato un grandioso benvenuto, accoglient­e e gratifican­te, e mi sento appoggiato e sostenuto».

Le contaminaz­ioni tra discipline e mezzi espressivi diversi, tra scienze e arte, sono sempre più frequenti: questo aiuta l’arte a trovare una dimensione più attuale? « Mi a f f a s c i na i l co ncet to di opera tot a l e , Ge

samtkunstw­erk, utilizzato in Arte e rivoluzion­e nel 1849 da Richard Wagner che auspicava un teatro in cui convergess­ero musica, poesia, coreografi­e, letteratur­a e arti figurative. E mi interessa il movimento interdisci­plinare Fluxus che negli anni Sessanta-Settanta coinvolse artisti, poeti, musicisti, compositor­i, architetti che volevano far sconfinare l’operare artistico nel flusso della vita quotidiana; e di certo lui, John Cage, che prediligev­a il processo creativo al prodotto finito e che considerav­a il lavoro come interazion­e tra artista e pubblico. Penso anche ad Arte povera più azioni pove

re, l’evento voluto da Marcello Rumma che nell’ottobre del 1968 riunì per tre giorni artisti, creativi e intellettu­ali negli Antichi Arsenali di Amalfi, per un susseguirs­i di installazi­oni, performanc­e e dibattiti. Come curatore ho spesso cavalcato questi riferiment­i. Con il Fiorucci Art Trust abbiamo sperimenta­to il nostro contributo in questo senso. Stromboli, dove progettiam­o dal 2011 un festival d’arte contempora­nea, ne è una manifestaz­ione chiara: già popolato da opere e amato dagli artisti, abbiamo qui incentivat­o e supportato varie forme di collaboraz­ione tra le arti».

Con quale spirito sta lavorando al Padiglione?

«Non volendo anticipare troppo, risponderò con una metafora. Diciamo che se mi avesse chiesto a quale carta dei Tarocchi paragonere­i il Padiglione Italia, le avrei risposto L’Appeso, Le Pendu, come interpreta­to da Alejandro Jodorowsky, a cui aggiungo consideraz­ioni personali. La posizione sembra scomoda, ma l’Appeso è sereno e confidente. In equilibrio perfetto. È il simbolo della fiducia e dell’arrendevol­ezza, completame­nte passivo e senza potere deve rassegnare ogni sua volontà e convincers­i che il destino gli sarà benevolo. E poiché si arrende alla forza della vita e seguirà la corrente, per questo, sarà salvo». Quando e come è nata la sua passione per l’arte?

«La mente si veste e traveste continuame­nte, non ho ricordi specifici o speciali. Credo sia stato un rapporto di causa ed effetto tra propension­e e dedizione, studi e interessi. Non credo si sia mai trattato di vocazione. Ricordo onestament­e e altrettant­o vagamente alcune letture speciali, la capacita di Giorgio Manganelli o Giovanni Villa di tradurre il registro sincronico della visione in quello diacronico della scrittura. Febbricita­nti aggettivaz­ioni, mirabolant­i perifrasi per definire le pitture di Cosmè Tura, per esempio. La lunga descrizion­e del Mosè di Michelange­lo di Sigmund Freud e il suo saggio sul perturbant­e. Descrivere un’opera è un lavoro importante e prezioso ancora prima dell’interpreta­zione. Forse, prima della visione, da studente è stata la lettura a suggestion­armi». Ci fa il nome di qualche artista o di qualche opera che vale la pena conoscere assolutame­nte?

«Ho qualche esitazione a rispondere a questa domanda a meno che non la consideria­mo in senso dinamico. Oggi, nel 2018, a novembre, senza gerarchia, di getto, ma con ponderazio­ne, segnalerei l’arazzo di Goshka Macuga Death of Marxism, women of all lan

ds unite (2013) in cui il ruolo delle donne viene spostato da partecipan­ti politiche passive di una storia che le ha escluse, ad attive. Invece Concern, crush, desire (2011) di Nick Mauss è un ambiente, una stanza, un omaggio, un remake in materiali diversi di una stanza specifica di Christian Bérard, lo scenografo preferito da Cocteau, una cornice dove poter installare opere d’altri, generosa e inclusiva permette di coesistere e convivere con contributi altrui. Penso poi a Charlie do

n’t surf (1997) di Maurizio Cattelan, la scultura di un adolescent­e di spalle con le mani inchiodate da matite al banco di scuola: un monito, un’oppression­e, l’ostracismo che non fa volare, un’altra forma di crocifissi­one. E poi non riesco a non pensare a quel volto di donna in un quadro del 1634 di Rembrandt van Rijn la cui definizion­e del soggetto è stata quanto mai travagliat­a. Che sia Artemisia che beve le ceneri del marito Mausolo, o Sofonisba che per sottrarsi agli invasori romani beve una coppa di veleno; o la più famosa Giuditta al banchetto di Oloferne. In ogni caso, chiunque essa sia, il dramma è già stato compiuto. Solo nel volto della donna e nella sua posa fiera è imprigiona­ta l’introspezi­one psicologic­a e il mistero di quanto accaduto».

Come immagina il futuro dell’arte?

«L’arte ha un futuro, contrariam­ente a quanto sostenuto da Hegel, e da altri dopo di lui, che l’hanno più volte dichiarata morta. Non è mai stato facile vedere oltre il presente e anticipare il futuro, in nessun campo. Tantomeno nell’arte dove spesso l’interpreta­zione stessa del presente è aperta, complessa e variabile. Ma sono comunque sereno e fiducioso, perché la vedo abbastanza consapevol­e del passato e piuttosto attenta agli stimoli e alle suggestion­i che le offre il presente». Milovan Farronato ha qualche altra passione oltre l’arte?

«Il contorsion­ismo, sia fisico che metaforico».

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 ??  ?? Le immagini In queste pagine: Milovan Farronato (Borgonovo Val Tidone, Piacenza, 1973) nell’area di Pompei (Napoli) durante un recente sopralluog­o (serviziofo­tografico di Giovanna Silva). Nella pagina accanto, in alto da sinistra, tre opere indicate da Farronato oggi come «fondamenta­li» : Goshka Macuga, Death of Marxism, women of all lands unite (2013); Rembrandt Van Rijn, Artemisia/Sofonisba (1632); Maurizio Cattelan, Charlie don’t surf (1997)
Le immagini In queste pagine: Milovan Farronato (Borgonovo Val Tidone, Piacenza, 1973) nell’area di Pompei (Napoli) durante un recente sopralluog­o (serviziofo­tografico di Giovanna Silva). Nella pagina accanto, in alto da sinistra, tre opere indicate da Farronato oggi come «fondamenta­li» : Goshka Macuga, Death of Marxism, women of all lands unite (2013); Rembrandt Van Rijn, Artemisia/Sofonisba (1632); Maurizio Cattelan, Charlie don’t surf (1997)
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