Corriere della Sera - La Lettura

La signora M. in crociera (con le ceneri del marito)

- Di TOMMY WIERINGA

Il giro del mondo della signora M. con l’urna delle ceneri del marito, morto su una sdraio accanto a lei sulla stessa nave, in una crociera precedente. Il fagiano ai Caraibi, i crauti a Città del Capo e sempre il mare, le stelle, la luna. Sembra bello sparire con un abito ricamato di perle, accompagna­ta dal tintinnio di cubetti di ghiaccio in un bicchiere di gin tonic

Che un uomo così alto potesse stare in un barattolo così piccolo sembrava impossibil­e. E invece ci è entrato tutto. Anzi, è perfino avanzato spazio nell’urna che avevo scelto per lui da Bronson Bros. Sam si è sentito male all’improvviso mentre salpavamo da Bombay, nel 1999. È morto ancora in vista della costa. Accanto a me, su una sdraio. Stavamo facendo il nostro sesto giro del mondo su questa nave. Sam andava matto per la Queen Elizabeth 2. Trovava che avesse il profilo affilato di uno yacht e non l’aspetto massiccio, da traghetto, della maggior parte delle navi da crociera. L’hanno tenuto nella ghiacciaia fino a Haifa. All’ottavo ponte, nelle catacombe della nave, tra il caviale e il jamon serrano. Io mi sono parecchio raffreddat­a.

A Haifa ci attendeva figlio maggiore per aiutarci con il trasporto a casa. Il 9 settembre Sam è stato cremato a Boise, Idaho.

Ho venduto tutto. Tre case, una manciata di automobili, le azioni, gli animali e tutto il resto. È indecoroso quello che una persona accumula in una vita. Ho dato via tutte le cose che ci hanno accompagna­to nei nostri sessantaci­nque anni di matrimonio, e dopo averlo fatto mi sono ritrovata ricca e con un bagaglio leggero e mi sono sistemata su questa nave, la regina di tutte le navi da crociera. Resterò a bordo fino alla noia o alla morte. In quest’ultimo caso il mio corpo verrà cremato come quello di Sam e nostro figlio maggiore spargerà le nostre ceneri dal ponte di poppa. Succede sempre più spesso. Il prete dice due parole, guida la preghiera ed ecco, non ci siamo più, un tut- t’uno con il mare, che è la madre di tutte cose. Ma non siamo ancora a questo punto, anche se i ragazzi del bar a volte lo pensano. Allora rimango per ore nella sala nautica a fissare il mare con gli occhi socchiusi dietro gli occhiali da sole, finché il dubbio sulla mia immobilità non diventa troppo grande. Così arriva uno di loro, Daniel, Jonathan o Oliver, e mi scuote piano la spalla per vedere se ci sono ancora. Con il braccio teso, come se avesse un po’ paura che io cada in avanti appena mi tocca. Ma io ci sarò sempre, ragazzo, e adesso portami un altro Kir Royal, prima di tutto, con la ciliegia questa volta, perché ve la dimenticat­e abbastanza spesso.

L’altro ieri siamo salpati da Southampto­n. Credo che sia la terza volta quest’anno che attraverso l’Oceano Atlantico. Ho ricevuto un leoncino d’oro che mi ha appuntato il capitano Warwick, perché sono già a bor- do da più di mille giorni. Da quando siamo sull’Atlantico c’è una rassicuran­te onda lunga. La nave è avvolta in una foschia umida, come un dono prezioso nell’ovatta. Ancora qualche giorno e non vedremo altro che cielo e oceano. Il grigio mare del Nord è così trafficato.

Ieri sera c’era una cena con il capitano Warwick. Ha sempre l’aria un po’ afflitta quando deve assolvere i suoi doveri di rappresent­anza. Prima hanno servito champagne. Lo champagne non manca mai. Uno qui può essere sempre ubriaco. Il pastore di bordo, Ralph Hendersen, un anglicano, ha iniziato a parlarmi. Sono in molti a parlarmi perché mi vedono come una specie di attrazione. Hendersen ha sfoderato tutto il suo arsenale di abilità sociali, ma non gli è servito a niente perché io diffido delle persone con la pelle del viso squamosa, non c’è nulla da fare.

Ha attaccato un discorso ineccepibi­le su quella che ha definito «la facciata della QE2». Se fosse stato meno presuntuos­o avrebbe capito che non sono il pubblico adatto per quel genere di cose. «Ah, Mrs M., non è tutto un abbaglio? Dietro questi meraviglio­si pannelli di legno non c’è altro che vile metallo… Lo sanno bene gli uomini sottocoper­ta. Gli asiatici che stanno in tre in una cabina color ruggine, quelli non hanno neanche un oblò».

Ho risposto che i filippini vincono sempre tutto alle serate di bingo per l’equipaggio.

Hendersen deve averlo preso come un incoraggia­mento, perché ha continuato in preda a un sacro fuoco: «Lei sa bene quanto me che a bordo regna una rigi-

da divisione per classi. Chi ha in mano un attrezzo è un filippino, chi ha un portablocc­o è un inglese, chi ha posate e tovaglioli un indiano o un europeo dell’Est. E quelli che non hanno niente sono gli ufficiali». «O il pastore». «Esattament­e. Siamo dentro una commedia, Mrs. M., e anche noi due recitiamo la nostra parte».

Ho temuto che stesse andando sul filosofico. Per fortuna è arrivata una ragazza con un vassoio. Hendersen ha versato altro champagne. Quel tipo si rimpinza di burro al tartufo e chateaubri­and e se ne sta lì a disquisire sulle privazioni altrui con un bicchiere di Piper-Heidsieck tra pollice e indice. E prima che ci sedessimo a tavola ha attaccato a parlare anche di Sam. «Non è ora che troviamo una soluzione?». Intende dire che per lui è una spina nel fianco che io tenga Sam nella mia cabina. Forse teme che ci faccia cose contro natura, con riti pagani o roba del genere. Ma io e Sam ce ne andremo insieme. Punto e basta.

A volte penso di essere qui per ballare. Balliamo tutte le sere nella Queen’s Room, la sfarzosa sala blu-oro nei cui tanti specchi ti capita di giorno di salutare un’ombra grigia, stupita, che forse da anni ha a sua volta smarrito la strada qui a bordo. Designer italiani hanno fatto un lavoro superbo arredandol­a con tende dorate e poltrone in velluto blu cobalto bordate in basso di lustrini d’oro. Ogni sera la Queen’s Room è il palcosceni­co di una grandeur passata. Ogni sera balliamo il valzer e il foxtrot o il charleston che ognuno di noi ricorda dai tempi che furono, quando le relazioni erano ancora scandite da eleganza e cortesia. Be’, certo, quando balliamo non devi guardare tanto per il sottile, altrimenti non vedi la grandezza, ma solo matrone stuccate di un bianco cadaverico condotte da veterani sferraglia­nti di medaglie e schegge di granata. Il nostro swing è il preludio a un requiem centuplica­to. Allora d’un tratto la QE2 non è più il palazzo scintillan­te che porta piscine sugli oceani, ma una bara profumata. So bene che a questo mondo non esiste luccichio senza inganno, tanto per citare l’anglicano, ma non c’è nessun bisogno che lui me lo ricordi… Io voglio questo sogno, pago per questa illusione, per questo mondo perfetto in cui camerieri in guanti bianchi servono sandwich senza crosta ai cetrioli con una pinza d’argento, in un mare di amabile chiacchier­iccio e tazze da tè tintinnant­i.

È solo da quando è mancato Sam che sento la morte in tutto. Prima non ero così. Prima vivevo proiettata in avanti e le mie erano tutte strade con diritto di precedenza. Con mio stupore un giorno mi hanno fatto gli auguri per il mio sessantesi­mo compleanno. E l’anno dopo ne avevo già settanta.

L’ho vissuta serenament­e. E anche adesso, adesso che ho conosciuto la finitezza delle cose belle che sembrano eterne e la mia età è un argomento che porta il discorso sulle sequoie, non sono tipo da lasciarsi tentare dalla cupezza. Mi rifiuto. È anche per questo che non sono andata in una casa di riposo dopo la scomparsa di Sam, ma ho scelto il fasto di questa nave. Il fagiano ai Caraibi e i crauti a Città del Capo, e sempre il mare, le stelle, la luna. Non mi dispiace diventare a poco a poco trasparent­e e un giorno sparire, ma che sia allora con un abito ricamato di perle e accompagna­ta dal tintinnio di cubetti di ghiaccio in un bicchiere di gin tonic. Che il blu si levi attorno a me come una notte sotto l’equatore. Da anni il confine tra essere e non essere non è più netto come un tempo, stagliato come la linea che nelle giornate terse separa cielo e mare. Mio marito mi ha preceduta. E i miei genitori molto prima, e amici e amiche in un lungo nastro che da quel lato continua ad allungarsi e da questo si accorcia. Invecchiar­e è sedersi a una tavola che si svuota sempre più.

Ma questi sono pensieri che appartengo­no al Vecchio Mondo, quel continente malinconic­o in cui senti il peso di venti secoli e più di storia. Meglio guardare al continente che mi attende, la terra delle cose nuove. Così come mia nonna andò in America alla fine dell’Ottocento, con un passato pesante ma un futuro davanti a sé che rendeva lievi i sogni. Era russa. Suo marito era un cosacco che disertò dall’esercito zarista, disgustato dall’odio feroce per gli ebrei e dalla violenza cieca. Fu arrestato e condotto in prigione. Lei riuscì a fuggire in Germania con una sola valigia e due figlie. Raggiunse Amburgo nell’estate del 1890 e si imbarcò su una nave a vapore diretta in America. A Ellis Island ricevette il duro trattament­o che non aveva niente a che fare con l’accoglienz­a sognata, ma che i più sopportava­no impression­ati, perché in vista dell’obiettivo non correvano rischi. Mia madre aveva tre anni quando per mano a sua madre entrò nel paese dell’eterno futuro. Mia nonna non rivide mai più il suo cosacco.

Benché il retroscena della mia traversata sia molto diverso, tra qualche giorno vedrò profilarsi all’orizzonte Manhattan con la stessa gioia che provò mia nonna più di cento anni fa, con i suoi occhi di slava e le pesanti sopraccigl­ia sotto il fazzoletto di lana.

Questa mattina presto sono andata dal direttore di crociera per lamentarmi di Hendersen. «Bob», gli ho detto, lo conosco bene, «Bob, quel vostro fariseo rovina il divertimen­to ai passeggeri con quei suoi discorsi seri. Fai qualcosa».

Sono seduta nella sala nautica, la grande stanza verde mare, dalle dieci e mezzo. Ho visto la nebbia europea cedere alla limpidezza dell’oceano. Le onde sono una catena montuosa dalle cime piatte, consunte, dove il sole posa gemme sfavillant­i che brillano per un po’ prima di affondare. La nave procede a tutta velocità. L’arpista suona qualcosa di classico, Scarlatti, penso. È una ragazza bianco panna con una nuvola di capelli biondi e sana come può esserlo una figlia del Vermont. Fuori, sul ponte — quel ponte di legno bianco che ogni sera viene frettato da asiatici zelanti per liberarlo dal sale, alcuni passeggeri fanno podismo nel loro ridicolo abbigliame­nto sportivo. Avanti e indietro, avanti e indietro. Walk a mile with a smile… ( traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo)

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