Corriere della Sera - La Lettura
Ahimè, povero Arfelli che dalla fama scivolò nel silenzio
Su Dante Arfelli (Bertinoro, ForlìCesena, 1921 – Ravenna, 1995) si accesero i riflettori per I superflui (Rizzoli, 1949), l’approdo di un giovane provinciale nella Roma del dopoguerra: il suo stile secco e spietato, in pieno clima neorealistico, gli valse il Premio Venezia e un gran successo di pubblico anche all’estero (negli Usa vendette 800 mila copie). Dopo quel romanzo ne pubblicò un altro nel ’51, La quinta generazione (Rizzoli), per poi dedicarsi al mestiere di insegnante. Non se ne sentì più parlare. Il silenzio fu rotto nel ’75 da Quando c’era la pineta (Edizioni del Girasole), racconti scritti tra il ’49 e il ’54 raccolti da Walter Della Monica, l’amico mai rassegnato al suo silenzio. Arfelli era già logorato dai «nervi, i nervi, i nervi», la malattia che ancor più lo legò a Giuseppe Berto nonostante il suo fosse «un male chiaro, non oscuro», stando al parere del dottore. Perduta la moglie, lasciò Cesenatico e si trasferì dalla figlia a Ravenna, dove fu ospite di strutture assistenziali. E fu proprio lì, nel 1988, che Della Monica lo convinse a riprendere la penna per raccontare «come viene viene» la malattia, l’attualità («i giovani: preferiscono proprio la partita, invece di fare l’amore?»), il progresso («sono andati sulla luna e ancora non hanno trovato una medicina per un semplice raffreddore»). Gli appunti vanno a formare il primo blocco di questo Ahimè, povero me (Marsilio, 1993), il secondo è una riscrittura («per esercitarmi la mano») di inediti Racconti del cassetto, il terzo raccoglie lampi che ci conducono nella sua solitudine, sul confine tra precipizio e lucidità: il testamento di uno scrittore vero, libero, che non andrebbe dimenticato.