Corriere della Sera - La Lettura
Dannata Roma, ti amo e ti odio
I Germani dovettero scegliere tra la resistenza armata alle legioni e l’accettazione della civiltà portata dagli invasori. Le storie opposte di due condottieri: Arminio ed Ezio
Arminio e Ezio. Due figure agli antipodi. Due vite che, a distanza di quattro secoli, si ritrovarono di fronte a un dilemma: vivere un isolamento difficile, ma fatto di libertà e autodeterminazione, e scontrarsi con la civiltà romana; o lasciarsi assimilare da essa e, nel caso, difenderla? Per Arminio, questa alternativa condizionò tutta la sua vita. Nacque in un’epoca particolare, intorno al 16 avanti Cristo, quando Roma intravide un destino che non si arrestava al Reno, ma andava al di là dei confini tracciati da Giulio Cesare, agli estremi limiti del mondo conosciuto, fino all’Elba: terra di paludi, di boschi, bagnata dall’Oceano nero e tumultuoso, abitata da dèi terribili solo a invocarne il nome. Ma che, da circa il 20 a. C., era diventata la nuova frontiera della politica augustea. Un universo, quello Transrenano, abitato, come scrive ora Umberto Roberto nel libro Il nemico indomabile (Laterza), da gente che «non batteva moneta, viveva in piccoli gruppi di s per s i per l e ca mpagne, pr a t i ca va un’agricoltura primitiva e poco fruttuosa». Ma una società di guerrieri, nei confronti dei quali Giulio Cesare aveva invitato a essere prudenti e ad andare cauti con l’espansione.
Invece no. La fame di Augusto e dei suoi discendenti, specialmente di Druso, guardò con avidità proprio lì. Il sogno di aggregare le stirpi germaniche sotto l’aquila romana si propagò. Con un’assimilazione — una «provincializzazione», come la definisce Roberto — che avvenne a tappe forzate, con confische, occupazioni e tassazioni spesso brutali, ma anche con lo spirito di una civiltà apportatrice di nuove forme amministrative, economiche, di sviluppo, con la comparsa pianificata di centuriazioni, di accampamenti, di insediamenti urbani. In questi aspetti è evidente tutta la contraddizione: se scegliere tra una forma di civiltà più organizzata o preferire la libertà, basata su schemi più primitivi, ma meno brutali. Un’alternativa per le popolazioni locali, diremmo oggi, di natura ecologica, tra lo scomparire e il sopravvivere. Sicché, ci fu chi Roma l’accettò di buon grado, secondo una politica di cooptazione delle élite; chi no. Con lacerazioni terribili all’interno degli stessi contesti familiari, dei medesimi clan.
Questo è ciò che accadde ad Arminio, della stirpe regia del popolo dei Cherusci. In tutti i sensi un assimilato. Che si presta a essere romano. Che entra come ausiliario in una legione. E serve l’impero. Lui e la sua famiglia, come il fratello Flavo. E diventa Gaio Giulio Arminio, nominato dai Romani perfino eques, ossia cavaliere. Combatte con Tiberio e impara le tecniche di guerra romane. Però questa convivenza gli sta stretta. Il giogo romano lo avvilisce. Dice lo storico Tacito che era forte in lui il senso di libertas. E decide che la sua strada sarà diversa. Di opposizione. Così tradisce. Quando la grande armata di Quintilio Varo passa il Reno e attraversa la terra dei Germani, prende forma l’agguato teso a distruggere le legioni occupanti, che Arminio organizza in segreto con altri capi tribù, chi più o chi meno, romanizzati. Più di trentamila persone tra legionari romani, truppe ausiliarie, gente al seguito, carri, donne e schiavi vengono chiusi in una trappola, a cui noi diamo il nome di battaglia della selva di Teutoburgo; in realtà uno scontro che durò più giorni e si dipanò lungo un labirinto di quaranta-cinquanta chilometri tra selve e paludi, fino a un luogo chiave, da poco messo in luce dagli archeologi, Kalkriese, dove la mattanza delle legioni romane ebbe fine. minaccia, da respingere erigendo una barriera, il limes.
È una zona di frontiera porosa da cui, dal III secolo in poi, in maniera sempre più massiccia irrompono i popoli migranti. Alla ricerca di nuovi spazi. Attratti dalle ricchezze di un impero che appare sempre più imbelle. A difenderlo ci sono ora i barbari, i nuovi e — quasi paradossali — depositari della tradizione romana. Il generale Ezio non fu propriamente uno di essi. È romano, sebbene sia un uomo di frontiera. Non a caso, nasce, circa nel 390, sul Danubio, nel castello di Surostorum, nella Mesia seconda, oggi Silistra, in Bulgaria. La madre è italica. Il padre forse di origini gote. Da subito entra in contatto con i barbari. Fu ostaggio prima dei Visigoti e poi degli Unni. Diventa un generale capace, tanto da coagulare intorno a sé un nuovo esercito per difendere l’impero. Composto «non più da truppe nazionali ma da contingenti barbarici che sostituivano l’esercito regolare in dissolvimento», come chiarisce Giorgio Ravegnani nella sua recente biografia Ezio (Salerno).
L’epicentro dei suoi interessi è la Gallia. Vince nel 426 i Visigoti. Due anni dopo libera il Reno dai Franchi. Ma soprattutto è lui che blocca gli Unni di Attila alla battaglia dei Campi Catalaunici, nel 451: scontro titanico in cui sembra cadessero più di 100 mila soldati, «l’ultimo grande successo di Roma, quasi assurdo per un impero ormai allo sfascio, se non ci fosse stato Ezio». Successo che servì poco al generale: la sua fama era ormai in declino e l’imperatore Valentiniano III che aveva provato sempre nei suoi confronti un astio profondo, ne approfittò per farlo assassinare, nel 454. Di lì a poco, l’impero d’Occidente sarebbe tramontato, con l’inizio, per l’Europa, di una nuova storia.
Due barbari, in definitiva. Per i quali Roma, comunque, fu un’ossessione. Nel male (come per Arminio) e nel bene, nel caso di Ezio. Due personaggi che appaiono spesso in maniera evanescente dalle testimonianze, ma che contribuirono Ezio a perpetuare il mito, ormai purtroppo morente, della invincibilità di Roma; Arminio, la memoria del fatto che un popolo diviso e più debole, come quello dei Germani, «si fosse riunito per resistere a una civiltà più grande, più potente, ma oppressiva». La civiltà di Roma.