Corriere della Sera - La Lettura
La signora Sherlock Holmes raccontava anche storie
Lezioni Vengono ripubblicati due testi non saggistici della grande filologa (e critica, e critica militante, e semiologa, e stilista, e teorica della letteratura...) Maria Corti. Confermano, come altri suoi lavori, il legame tra indagine e invenzione
di
Per quelli che l’hanno conosciuta, che hanno seguito i suoi cors i u n i ve r s i t a r i , c h e h a n n o chiacchierato con lei, che ne hanno potuto ascoltare le numerose sollecitazioni, Maria Corti resta, a 16 anni dalla morte, una figura indimenticabile. Figura intellettuale di rarissima qualità anche umana. È stata una vera fortuna, conoscerla. Una sfortuna per coloro che non l’hanno incontrata ma che possono sempre rimediare, almeno parzialmente ma neanche troppo, leggendo i suoi libri, saggi, romanzi, saggi narrativi, narrazioni saggistiche, racconti memoriali. C’è sempre questa opportunità che andrebbe sfruttata: leggere.
Leggere Maria Corti significa entrare in un mondo: un mondo non del tutto scomparso anche grazie agli editori che ancora lo tengono in vita quasi eroicamente. Tra questi c’è la Bompiani, che ha appena ripubblicato due suoi libri di narrativa: Il canto delle sirene (1989) e Le pietre verbali (2001). Sono due opere che appartengono alla fase tarda della lunga storia intellettuale della Corti ma che danno l’idea dell’ampiezza del suo lavoro. Come osserva Cesare Segre, suo grande amico e sodale, nell’introdurre Il canto delle sirene, è stupefacente la capacità di Maria Corti nel far convergere dentro il racconto molte delle conoscenze che ha attraversato come studiosa e le esperienze che ha vissuto: l’invenzione contiene in sé l’intelligenza filologica e viceversa. Uno dei personaggi su cui si concentrò, negli ultimi anni, l’attenzione della studiosa fu l’Ulisse dantesco (con studi molto affascinanti sull’aristotelismo radicale), che diventa non solo oggetto di uno dei racconti ma «metafora e paradigma per i protagonisti degli altri racconti» (Segre). Ed è in qualche misura un personaggio autobiografico: nel senso che la famosa curiositas dell’eroe mitologico (la ragione per cui Dante lo ammira e lo condanna) è la stessa che spinge la Corti oltre le Colonne d’Ercole del già noto e del moltissimo già detto.
È una delle tante dimostrazioni di quanta circolarità creativa ci sia dentro la personalità di Maria Corti. Inesausta, inquieta ed entusiasta. Al punto che definirla filologa e scrittrice risulta impreciso e riduttivo: bisognerebbe aggiungere critica, critica militante, semiologa, stilista, indagatrice dei percorsi dell’invenzione, teorica della letteratura, attivista culturale e dunque civile. Una personalità che sin dagli inizi si rivelava insieme centripeta e centrifuga. Pensare che cominciò con una tesi di laurea con il linguista Benvenuto Terracini sul latino me- dievale e che poco dopo conseguì una seconda laurea in estetica con Antonio Banfi. Frequentando ambienti intellettuali del tutto diversi ma altrettanto attraenti: i circoli storico-linguistici torinesi e quelli filosofici del razionalismo critico e dell’antifascismo milanese (l’amicizia con Anceschi, Paci e Sereni, la vicinanza con Vittorini). Una «doppiezza» che seppe mettere a frutto nella complessità del suo fare critico, nella scrittura creativa e nell’approccio con le persone, specialmente con gli allievi.
Nell’insegnamento universitario, arrivato tardi (nel 1962 a Lecce) Maria Corti porta con sé la lunga esperienza di docente nelle scuole secondarie: alle medie di Chiari (Brescia) dal 1939 al ’50, poi nei licei a Como e a Milano (a questa esperienza dedicherà il secondo romanzo, Il ballo dei sapienti). L’equilibrio tra una vocazione didattica mai abbandonata e l’autorevolezza accademica subito prestigiosa ne faceva un’insegnante straordinaria: le sue lezioni a Pavia erano spesso uno spettacolo trascinante per forza di un ragionamento sempre stringente, veicolato da una voce capace di inarcarsi nei momenti giusti. Non c’era modo di sonnecchiare, quando parlava. E non c’era modo di distrarsi, anche quando nella complessità severa dell’argomentazione qual cos a necessar i a mente s f uggiva. Semplicità e complessità, il passaggio dall’infinitamente piccolo di un sintagma all’infinitamente grande di un pensiero o di una visione teologica: ecco qual era, tra i tanti, il suo fascino.
Ogni lezione era anche una lezione di metodo. Metodi e fantasmi è il titolo (bellissimo) del suo primo libro di studiosa, 1969, una raccolta di saggi di teoria critica e di esercizi su autori classici e contemporanei, tra i quali Sannazzaro, Bilenchi, Fenoglio, Montale. Dove l’esigenza metodologica, tra filologia, stilisti- ca e strutturalismo, viene resa inquieta e insieme completata dall’accostamento con i «fantasmi»: che sono quegli autori «entrati nel passato di chi li ricorda» o meglio, con felice immagine, quelli che «proiettano la loro assenza sul nostro presente». A farli più presenti, o meno assenti, nel nostro presente interviene la studiosa, con i suoi strumenti e il suo metodo. E il metodo, spesso e volentieri, per Maria Corti è un irresistibile procedimento indiziario da detective. Che viene perseguito prestissimo, sin dal 1961 in uno studio in cui, attraverso delicati passaggi di tipo linguistico e iconografico (una miniatura), il poemetto Delfilo, erroneamente assegnato a Francesco Colonna e all’area trevigiana, trova un’attribuzione sorprendente nel «fantasma» piacentino di Marco Antonio Ceresa. Come è stato ampiamente mostrato, si tratta di una sorta di «racconto critico», quasi un poliziesco con disvelamento finale. La Corti si guadagnò da Petrocchi la qualifica di Perry Mason della filologia, e sarebbe poi stato Umberto Eco, nella recensione a un libro molto più tardo, Dante a
un nuovo crocevia (1981), ad assimilare la Corti alla «genealogia dei detective» e a collocarla in una ideale «funzione Holmes». Niente di più lusinghiero per una appassionata fan di gialli televisivi come L’ispettore Derrick, La signora in giallo, ER Medici in prima linea.
Non sarebbe invece stata così ingenua, Maria Corti, maestra nel mescolare le carte dei generi e degli stili, da assecondare la voga del giallo nella sua narrativa. Dove si evidenzia piuttosto in modo netto la doppia anima dell’autrice, settentrionale anagraficamente e meridionale per elezione, nata a Milano nel 1915 da un padre ingegnere in Puglia e da una madre che sarebbe morta quando Maria aveva dieci anni costringendola a crescere come educanda interna presso le suore Marcelline. La villa di famiglia a Pellio, in Valle Intelvi, e Maglie sarebbero stati per sempre i luoghi del suo buen retiro, estranei ai circoli accademici, dove ritrovava amici e affetti.
Il primo romanzo, L’ora di tutti (1962), è un omaggio al «suo» Salento dove trascorreva regolarmente l’estate: rievocazione corale dell’assedio e della strage di Otranto da parte dei turchi nel 1480; il secondo affronta, nel ’66, la realtà studentesca milanese poco prima della contestazione (in parte coincidente con gli ambienti e le ricostruzioni de Le pietre verbali).
Maria Corti ha concepito tutta la sua vita intellettuale così variegata come un’unica militanza dalla parte della letteratura e della cultura intese come condivisione familiare (quasi materna nei confronti dei suoi allievi che chiamava spesso «figliuoli», lei che non era stata madre e aveva avuto una madre morta giovane) e attenzione ipersensibile al proprio tempo: «Non si dovrebbe mai vivere fuori dal proprio tempo. Per deludente che esso sia, è il posto dove siamo per guardare sia indietro che avanti, per percorrere la nostra strada vorrei dire con parole un po’ grosse, e me ne scuso, per conoscere la forma del nostro destino». Era un modo per spiegare il suo impegno in riviste («Alfabeta» e «Strumenti critici»), la sua fedeltà nelle amicizie con i vivi e con i morti. Il Fondo Manoscritti che creò a Pavia è una cattedrale anche sentiment a l e cost r ui t a i n omaggio a gl i a mici scomparsi. Ombre dal fondo, dove raccontò quell’esperienza, è un omaggio alle Carte, ma soprattutto alla «sopravvivenza inquieta ed errante di coloro che le scrissero».
La studiosa era un’appassionata fan di gialli televisivi come «L’ispettore Derrick», «La signora in giallo», «ER Medici in prima linea». La scrittrice tuttavia non sarebbe invece stata così ingenua, maestra nel mescolare le carte dei generi e degli stili, da assecondare la voga del poliziesco nella sua narrativa