Corriere della Sera - La Lettura
Amici e (molti) nemici Vince Caravaggio
Confronti Parigi espone — per la prima volta dal 1965 — una raccolta di capolavori della stagione romana del Merisi a tu per tu con le opere di suoi contemporanei: imitatori invidiosi nell’arte e spesso avversari in una vita rocambolesca
Era dal 1965 che la Francia non ospitava una mostra dedicata al Merisi (allora furono presentate al Louvre 115 opere di cui 14 a lui attribuite). Per Caravaggio a Roma. Amici e nemici al Jacquemart André di Parigi (fino al 26 gennaio) di capolavori del maestro ne sono arrivati addirittura 10, su un totale di 31 opere esposte, per una mostra focalizzata sui rapporti di Caravaggio con gli intellettuali romani del tempo, con i collezionisti e con i suoi mecenati, ma anche con gli altri artisti, quelli che lo scelsero come modello e quelli che, invece, gli furono nemici e rivali sulla scena artistica romana del tempo. Caravaggio, oltretutto, non voleva essere imitato e pertanto lo fu suo malgrado, contrapponendosi ai suoi contemporanei, in occasione di discussioni, risse e processi.
La curatrice, Francesca Cappelletti, ha imbastito la rassegna, cercando conferme e proponendo confronti. Protagonisti sono Caravaggio nei soli suoi anni romani, e cioè dal 1592 al 1606, anno della sua fuga verso Napoli, e gli artisti a lui vicini in quel periodo. Nel cogliere i rapporti con le sue principali committenze, prime fra tutte quelle del cardinale del Monte, del banchiere Ottavio Costa, di Vincenzo Giustiniani e di Scipione Borghese, la mostra mette in luce invidie, ge- losie e protagonismi di quel ristretto circolo di artisti che animava l’effervescente ambiente della città. In quegli anni, prossimi al Giubileo, aristocrazia e clero erano infatti dediti a concertare una poderosa offensiva figurativa per contrastare i rigori del protestantesimo. Per abbellire palazzi, chiese e cappelle, venivano reclutati i pittori più in voga, ben presto sparigliati o messi in discussione dalle prodezze del giovane pittore lombardo. Le sue vicende e le sue intemperanze hanno fin troppo contribuito a romanzarne la vita e a celebrarne la fama e dunque oggi la curatrice non ha volutamente insistito su questi fatti, certo però che l’attento vaglio di carteggi e documenti d’archivio ha ancora una volta consentito di approfondire il contesto nel quale è maturata non solo la sua pittura ma anche quella dei suoi contemporanei.
La scelta delle opere, oltre a quelle a lui attribuite, è quindi caduta non su quelle della vasta schiera di pittori che nei decenni seguenti hanno interpretato il suo dogma, quanto sugli artisti a lui coevi, che forse non l’avevano mai incontrato ma che comunque sono rimasti folgorati — prima, durante o poco dopo — dalla Cappella Contarelli.
La mostra ci regala due fondamentali asset. Il primo è la possibilità di vedere da vicino, in spazi contenuti e magnifica- mente illuminati, capolavori immortali. L’incontro ravvicinato con la Giuditta e
Oloferne della Barberini, il San Gerolamo della Borghese e il Suonatore di Liuto dell’Ermitage, non lasciano spazio ad altri confronti e non possono che scuotere e percuotere il cuore di chiunque. Nella sala dedicata al «Teatro delle teste mozzate», accanto a capolavori di Saraceni, Gentileschi e il Cavalier d’Arpino, troviamo la disinvolta veemenza di Orazio Borgianni che, tra bagliori tempestosi, ci propone la formidabile decapitazione di un gigante colto negli spasmi e decisamente fuori scala. Certo Borgianni, annoverato tra i suoi nemici, doveva aver invidiato il fotogramma con cui Caravaggio aveva fermato il fiotto senza macchia che sgorgava dalla testa di Oloferne, mentre l’esuberante protervia del seno della Giuditta Barberini, che riporta al femminile un gesto assolutamente maschile, è un particolare immenso che nessuno ha più osato riproporre.
Il Suonatore di Liuto, giunto da San Pietroburgo dopo anni d’indagini e restauri, ci rimanda invece ai languidi atteggiamenti dei celebri Bacchi che Caravaggio destinava ai cavalletti delle sue altisonanti committenze, ma soprattutto ci introduce all’incantato mondo della musica e della natura morta, tema ribadito in una sala da due opere di Bartolomeo Cavarozzi: il compassato Lamento di
Aminta e il superbo Cesto di frutta, recentemente a lui attribuito e certo tra i più straordinari esempi di questo genere. Il confronto tra i due San Giovanni
Battista, quello dipinto dal Merisi per il figlio di Ciriaco Mattei nel 1601 e quello del Louvre da poco accordato a Bartolomeo Manfredi, è illuminante per comprendere l’importanza della pittura dal vero introdotta dal maestro. La sensualità dell’abbraccio serrato con l’ariete (e non con il tradizionale agnello) e il quasi bacio con la bestia, dichiarano inoltre senza mezzi termini l’ambiguo messaggio dell’adolescente spogliato. L’opera, e l’idea di raffigurare un santo completamente senza veli, gettò probabilmente nel panico i pittori a lui contemporanei, amici o nemici che fossero, ma fu più volte copiata e suggerì più tardi a Manfredi il suo
San Giovanni che, pur conservando l’approccio accademico del nudo, non osò riproporre la stretta intima con l’animale ma insistette comunque su un singolare, delicato tocco da parte di quest’ultimo.
L’accezione di nemico di Caravaggio è interpretata dal grandioso L’amor sacro
contro l’amor profano di Giovanni Baglione, capolavoro violento ma non volgare dipinto in risposta agli intimi e complessi simbolismi dell’Amor vincit Om
nia, ora a Vienna, eseguito una decina d’anni prima dal Merisi per Vincenzo Giustiniani.
I confronti stimolanti non mancano anche nelle sale seguenti. Dopo alcune riflessioni sul tema della meditazione, con eccellenti esempi di Gentileschi, Cecco del Caravaggio e ovviamente Caravaggio stesso, tra Ribera, Manfredi e il Cigoli, si presenta la sorprendente Nega
zione di Pietro del Pensionante di Saraceni. L’assoluta concentrazione dell’episodio, la semplicità del fermo immagine, la luce e i dettagli sublimati nella loro semplicità, potrebbero far pensare, dopo un’auspicabile pulitura, che il francese ospitato dall’artista veneziano potesse in realtà essere nientemeno che il giovane La Tour di passaggio a Roma. La mostra si conclude davanti alle due ormai celebri Maddalene. L’estasi di questa donna, riversa dal dolore o dal piacere di essersi ormai confidata nelle mani di chi la perdonerà, riportano alla Santa Teresa cui Bernini, quarant’anni più tardi, regalerà giusta e immortale memoria.
Nelle sale troviamo la disinvolta veemenza di Orazio Borgianni che, tra bagliori tempestosi, propone la formidabile
decapitazione di un gigante. Borgianni, tra i nemici di Caravaggio, doveva aver invidiato il fotogramma con cui quest’ultimo aveva fermato il fiotto che sgorgava dalla testa di Oloferne