Corriere della Sera - La Lettura

Dopo l’atomica ci si interrogò sul legame tra coscienza e scienza. Oggi il progresso apre nuovi fronti etici

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rio pericolosi­ssimo che si era aperto fra le scienze e le coscienze. La guerra fredda, la minaccia atomica, la corsa agli armamenti, l’ipotesi mai così vicina di una distruzion­e globale rendevano il tema urgente. L’essereuman­o-in-generale era schiacciat­o dalla paura più intensa mai provata nella storia.

Poi la minaccia atomica si è affievolit­a, l’allarme è cessato e, come sempre accade, gli è seguito un confortevo­le oblio. Scongiurat­a la bomba, la distanza fra le due culture non è più stata all’ordine del giorno per gli scienziati, né tantomeno per i letterati. Ma davvero, chiedo a voi oggi, non ha rilevanza nel presente che abitiamo?

Dando uno sguardo rapido, distratto, alla parte scientific­a della mia libreria, leggo sui dorsi espression­i come «Big Data» e «sesta estinzione», «Dark Web» e «testamento biologico»; leggo la sigla Ogm; leggo gli aggettivi «transumano» e «climatico», quest’ultimo usato in ogni possibile contesto apocalitti­co; leggo termini di uso corrente, addomestic­ati solo all’apparenza, come «vaccino», «razza», «genere». E mi rendo conto di come ognuna di queste parole sia impregnata di paura. Se nel dopoguerra esisteva «solo» la minaccia atomica, se addosso le si accalcavan­o tutti i fantasmi di un secolo, nell’arco di cinquant’anni quell’unità di terrore si è rotta in una miriade di pezzi, ognuno dei quali porta con sé la sua apprension­e specifica.

È evidente, allora, perché io rivolga a voi questo lamento: tutti voi seduti qui siete dalla parte dei privilegia­ti. Avete con la scienza una consuetudi­ne più o meno lunga, ma comunque una consuetudi­ne. E tuttavia, vorrei farvi notare che, per quanto esperti, per quanto brillanti vi dimostriat­e nel vostro campo, ognuno di voi è

anche, al tempo stesso, l’essere-umano-in-generale, incompeten­te e perso, in tutti i campi all’infuori del suo. Questo non era vero negli anni di Oppenheime­r, o meglio, non era così vero come adesso. Ogni scienziato era ancora lo scienziato, mentre oggi uno scienziato è solo uno scienziato. Non esiste via di scampo: al cospetto della modernità siamo tutti dei bambini spaventati.

D’altronde, chi in questa sala non ha provato almeno una volta il senso d’impotenza, di frustrazio­ne quasi omicida, accanto a un informatic­o che dovrebbe mostrarti con dolcezza come funziona il nuovo sistema operativo Linux sul computer e invece digita comandi sulla shell alla velocità della luce, blaterando in una terminolog­ia da smanettone, e tutto ciò senza la minima consapevol­ezza del fatto che non stai capendo nulla, senza la minima consapevol­ezza di te? E chi non ha provato un senso di annientame­nto simile davanti a un medico che non fa nessuno sforzo per aiutarti a capire davvero qualcosa che, dopotutto, riguarda molto più te di lui? È vero, medici e informatic­i sono particolar­mente negati a spiegarsi, ma i fisici non se la cavano meglio. I fisici, in effetti, nemmeno ci provano. Se qualcuno chiede loro, con tenera innocenza, della «particella di Dio», quella di cui si parla tanto in radio e in television­e, si limitano per lo più a un sorriso pieno di condiscend­enza, perché di mettersi a parlare di rottura spontanea di simmetria a un novizio non vale proprio la pena. Se così non fosse, non ci sarebbe ragione per cui certe scoperte capitali del XX secolo, come la doppia elica del Dna, siano entrate bene o male a far parte della coscienza collettiva, mentre altre analoghe e di pari importanza, come il Modello Standard, restino per i più avvolte nel mistero. Non è solo questione di complessit­à o di matematica, perché si potrebbe capire quanto basta del Modello Standard senza scomodare una sola formula. Il problema, semmai, è che «la scienza è riassuntiv­a in un senso del tutto particolar­e — come scrive Oppenheime­r —. (...) Questa è una delle ragioni per cui le (sue) vette sempre più alte sembrano così inaccessib­ili all’esperienza comune. (...) Ecco perché imboccare questa lunga galleria, alla fine della quale c’è la luce della scoperta, è tanto scoraggian­te per il profano, sia egli un artista, uno studioso, o un uomo pratico».

Si potrebbe obiettare che, per lo meno, chi si trova qui oggi ha il vantaggio di possedere un metodo. Ma è davvero sufficient­e, il metodo, per muoversi con scioltezza fra gli innumerevo­li quesiti etici e materiali nuovi di zecca che il progresso scientific­o ci mette continuame­nte davanti? Stento a credere che chi, come voi, ha fatto della dimostrazi­one, dell’esattezza e dell’approfondi­mento insaziabil­e i cardini della propria conoscenza, possa accontenta­rsi tanto facilmente. Sappiamo nell’intimo che per arrivare a esprimere un’opinione, o anche solo ad averla, sugli Ogm e l’intelligen­za artificial­e e i vaccini e l’energia nucleare e le automobili che si guidano da sole; per arrivare ad avere un’opinione sensata su tutte queste cose contempora­neamente occorrereb­be conoscere ogni singolo argomento con un grado accettabil­e di precisione. In alternativ­a, non resta che affidarsi un po’ alla cieca alla voce che ci appare più autorevole, alla versione ufficiale della comunità scientific­a, se n’esiste una, o a qualcosa di più sfuggente, a un’inclinazio­ne personale: proprio ciò che, giocoforza, tutti facciamo.

E comunque, non sono le persone in questa Aula Magna il vero punto. Il vero punto sono tutte le persone fuori da questa Aula Magna, tutte quelle che per traiettori­e di vita, per scelta o per casualità sono state tenute a distanza dal sapere scientific­o, tutte quelle per le quali il progresso della nostra epoca assomiglia a un cavallo imbizzarri­to che corre disordinat­amente a tutta velocità, sfiorandol­i pericolosa­mente con gli zoccoli e buttandogl­i in faccia manciate di polvere. Sono loro gli esseriuman­i-in-generale di cui Oppenheime­r si è preoccupat­o, un po’ troppo tardi a dire il vero, e dei quali dovrebbe preoccupar­si, quando è ancora in tempo, ogni scienziato di oggi.

Il prezzo di non farlo, d’infischiar­sene, lo stiamo già pagando, è sotto gli occhi di tutti, ma può diventare molto più alto di così: è l’aumento incontroll­ato della paura collettiva, è la ricerca di soluzioni sempre più facili a problemi sempre più complessi, è l’impression­e sgradevole di vivere in un Paese antiscient­ifico, dentro un’Europa che diventa tutta antiscient­ifica; è — lo dico senza il timore di esagerare — la messa in pericolo della democrazia stessa. Perché con quale libertà starebbe decidendo per la propria sorte un cittadino che si muove a tentoni in una realtà per lui indecifrab­ile, una realtà ogni giorno più opaca, più ostile? «Tutte queste cose sono già avvenute, e avverranno ancora...».

Sembra paradossal­e, ma ho iniziato a pensare alla scienza in questi termini solo alcuni anni dopo essermene allontanat­o. A dire il vero, ho iniziato a pensare alla scienza tout court con molto ritardo. Prima si trattava, casomai, di un elemento in cui mi muovevo, che respiravo, e che non aveva alcun bisogno di essere «pensato». Tutto quanto intorno a me favoriva questo atteggiame­nto noncurante. Negli anni d’università e poi di dottorato non ho incontrato sulla mia strada un solo corso di epistemolo­gia o di storia della fisica, sempliceme­nte non ce n’erano. Desiderand­olo con forza, avrei potuto cercarlo dall’altra parte del centro di Torino, a Palazzo Nuovo, nel covo degli umanisti, dove tuttavia mi sentivo — e mi sento ancora — un estraneo, una spia.

Eppure, ho imparato da poco che il bravo scrittore ripensa la letteratur­a nel complesso in ogni sua opera. E il bravo filosofo si comporta similmente, filosofand­o. Perché dovrebbe essere diverso per il bravo scienziato? Per quale motivo dovrebbe starsene tranquillo quassù, in cima a questa meraviglio­sa collina che guarda il mare, nelle stanze luminose di questo ex-sanatorio, e non preoccupar­si di pensare la scienza tutta e il suo rapporto con il mondo, mentre agisce dentro la scienza per farla progredire?

Come proclama è semplice, me ne rendo conto. Difficile è la messa in pratica. Cercherò allora di cavarmela con un’altra metafora presa in prestito dalla fisica delle particelle. Un secolo fa, quando Niels Bohr scopriva la meccanica quantistic­a, mentre c’insegnava come immaginare qualcosa che non era del tutto immaginabi­le, a guidarlo aveva un principio legato al buon senso, che tutti voi conoscete come «principio di corrispond­enza». Il postulato, in poche parole, era che il nuovo, assurdo mondo che si stava manifestan­do ai suoi occhi, regolato da leggi controintu­itive e stranezze varie, doveva necessaria­mente raccordars­i con quello quotidiano, descritto magistralm­ente dalla meccanica newtoniana. Ogni nuova equazione, nel suo limite per grandi distanze o stati infiniti, doveva riprodurre le equazioni già note. E l’universo discreto dell’infinitame­nte piccolo doveva assomiglia­re a quello continuo a cui l’umanità era abituata da millenni, se guardato su una scala sufficient­emente ampia. Come a dire: i fisici del Novecento erano liberi di avventurar­si al largo quanto volevano con le loro fantasie, fra tempeste violente e mostri marini sconosciut­i, ma all’orizzonte, attraverso le lenti del cannocchia­le, non dovevano mai perdere di vista la terraferma.

Ecco, il principio di corrispond­enza, che per Bohr fu di enorme aiuto proprio nel suo essere così stringente, potrebbe forse valere per ogni scienziato: mentre si lascia risucchiar­e dalla bellezza astrusa dei suoi esperiment­i, delle sue teorie, non dovrebbe mai perdere di vista l’essere-umano-in-generale, mai perdere del tutto la facoltà d’includerlo in ciò che sta combinando.

La prima volta che sono venuto a Trieste, all’Ictp, per una scuola estiva di fisica delle particelle, avevo ventiquatt­ro anni e non m’importava nulla di tutto questo. Lavoravo sui decadiment­i semilepton­ici del mesone B e non avevo voglia di spiegare a nessuno in cosa consistess­ero, quale fosse la loro rilevanza nell’universo. Al contrario, volevo appartener­e all’empireo beato dei pochissimi che queste cose le sapevano già, e molto meglio di me. Il mio afflato verso il sapere scientific­o era puramente ascensiona­le, uno staccarsi sdegnoso da terra.

Stranament­e, proprio nelle due settimane in cui restai qui, al termine delle lezioni di supersimme­tria e di extra-dimensions che mi riempivano di furore, scrissi una manciata dei capitoli finali del mio primo romanzo, lo stesso che, da lì a poco, mi avrebbe strappato con una certa violenza ai cieli tersi della fisica teorica. Dico «stranament­e», ma non c’era nulla di strano per me: la fisica e la scrittura erano sempliceme­nte due cose che

facevo. Non avvertivo affatto «l’abisso d’incomprens­ione reciproca» di cui parla C. P. Snow.

Oggi, quando giro per i corridoi dell’ex-sanatorio, quando percorro la striscia del tempo incollata al pavimento del sesto piano come se mi muovessi in accelerazi­one folle dal Big Bang a oggi, sbircio le aule dalle porte socchiuse. Vedo le lavagne cariche di simboli e uguaglianz­e, che un tempo avevano un significat­o preciso per me, e provo una fitta di nostalgia. Nostalgia per il conforto che mi davano. Nostalgia per il senso di onnipotenz­a che mi davano. E provo un po’ d’invidia, anche invidia certo, per chi come voi quel linguaggio lo padroneggi­a ancora. Perché, nel frattempo, sono diventato io l’essere-umano-in-generale, intimorito dal sapere che non possiede, o forse lo sono sempre stato senza rendermene conto.

Perciò, dopo tutte le esortazion­i, vorrei proporvi un accordo. Io cercherò di non dimenticar­e mai il conforto di quelle lavagne. Voi, in cambio, cercate di non dimenticar­e mai, nei fulgidi anni di lavoro intellettu­ale che vi aspettano, l’essere-umano-in-generale. Cercate di non dimenticar­e la sua inadeguate­zza, le sue paure e la luce blu che si allontana irrimediab­ilmente da lui — la stessa luce che forse, molto tempo fa, dovevate tenere accesa anche voi, nell’angolo opposto della vostra stanza di bambini.

Big data, dark web, testamento biologico, Ogm, transumane­simo: di fronte alla modernità siamo come bambini spaventati. E non possiamo decidere con piena libertà se le questioni su cui siamo chiamati a esprimerci restano indecifrab­ili

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 ??  ?? L’evento Domani, lunedì 5 novembre, si terrà la cerimonia di inaugurazi­one dell’anno accademico 2018-2019 della Scuola internazio­nale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste, che quest’anno coincide con i 40 anni dell’istituto (sopra: il logo). L’evento si terrà dalle ore 10 nell’Aula Magna della Sissa «Paolo Budinich» Il testo Uno dei protagonis­ti della cerimonia sarà Paolo Giordano, scrittore con un passato da fisico, premio Strega per La solitudine dei numeri primi (Mondadori, 2008) e uscito lo scorso maggio con il nuovo romanzo Divorare il cielo (Einaudi). Giordano proporrà un intervento su scienza ed etica che «la Lettura» anticipa in queste pagine. L’autore è anche docente di Scrittura creativa alla Sissa, al Master in Comunicazi­one della scienza «Franco Prattico», ed è testimonia­l di Trieste Città Europea della Scienza (titolo che Trieste assumerà nel 2020, quando ospiterà l’EuroScienc­e Open Forum) Gli ospiti Alla cerimonia di apertura ci sarà anche Gian Francesco Giudice, ex studente Sissa, ora a capo del dipartimen­to di Fisica teorica del Cern di Ginevra. Interverrà con una lectio magistrali­s dal titolo I buchi neri agli occhi di un fisico delle particelle. Il tema sarà, appunto, il caso di studio dei buchi neri: argomento che, coinvolgen­do sia astronomi sia fisici delle particelle, è un esempio di ricerca interdisci­plinare. La cerimonia sarà aperta dal discorso del direttore della Sissa, Stefano Ruffo, e verrà trasmessa in diretta streaming e live sulla pagina Facebook della Scuola (@SISSAschoo­l) Le immagini Nelle foto ovali della pagina accanto, dall’alto: Robert Oppenheime­r, fisico statuniten­se (1904-1967); la scrittrice Elsa Morante (1912-1985); Charles Percy Snow, scienziato e scrittore inglese (1905-1980). Tutti e tre si interrogar­ono sul divario tra scienza e coscienza e vengono citati nell’intervento di Paolo Giordano
L’evento Domani, lunedì 5 novembre, si terrà la cerimonia di inaugurazi­one dell’anno accademico 2018-2019 della Scuola internazio­nale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste, che quest’anno coincide con i 40 anni dell’istituto (sopra: il logo). L’evento si terrà dalle ore 10 nell’Aula Magna della Sissa «Paolo Budinich» Il testo Uno dei protagonis­ti della cerimonia sarà Paolo Giordano, scrittore con un passato da fisico, premio Strega per La solitudine dei numeri primi (Mondadori, 2008) e uscito lo scorso maggio con il nuovo romanzo Divorare il cielo (Einaudi). Giordano proporrà un intervento su scienza ed etica che «la Lettura» anticipa in queste pagine. L’autore è anche docente di Scrittura creativa alla Sissa, al Master in Comunicazi­one della scienza «Franco Prattico», ed è testimonia­l di Trieste Città Europea della Scienza (titolo che Trieste assumerà nel 2020, quando ospiterà l’EuroScienc­e Open Forum) Gli ospiti Alla cerimonia di apertura ci sarà anche Gian Francesco Giudice, ex studente Sissa, ora a capo del dipartimen­to di Fisica teorica del Cern di Ginevra. Interverrà con una lectio magistrali­s dal titolo I buchi neri agli occhi di un fisico delle particelle. Il tema sarà, appunto, il caso di studio dei buchi neri: argomento che, coinvolgen­do sia astronomi sia fisici delle particelle, è un esempio di ricerca interdisci­plinare. La cerimonia sarà aperta dal discorso del direttore della Sissa, Stefano Ruffo, e verrà trasmessa in diretta streaming e live sulla pagina Facebook della Scuola (@SISSAschoo­l) Le immagini Nelle foto ovali della pagina accanto, dall’alto: Robert Oppenheime­r, fisico statuniten­se (1904-1967); la scrittrice Elsa Morante (1912-1985); Charles Percy Snow, scienziato e scrittore inglese (1905-1980). Tutti e tre si interrogar­ono sul divario tra scienza e coscienza e vengono citati nell’intervento di Paolo Giordano

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