Corriere della Sera - La Lettura

Ecco come si scrive un romanzo a 16 mani

- A cura di IDA BOZZI

All’inizio dell’estate «la Lettura» ha invitato otto scrittori a comporre un romanzo a puntate. E a staffetta. Un Romanzo italiano. Partenza il 22 luglio. Sandro Veronesi è stato chiamato a scrivere la prima puntata. E poi via via gli altri, uno ogni settimana, con le illustrazi­oni affidate alle opere realizzate apposta da alcuni artisti. Avrebbero dovuto essere otto puntate, sono diventate sedici, due giri a testa: l’ultima, il 4 novembre, è toccata ancora a Veronesi, per chiudere il cerchio. Il giorno dopo i romanzieri si sono ritrovati a Milano per raccontare come hanno affrontato la sfida. La risposta è nelle pagine seguenti

Il romanzo è la storia di tre famiglie. I Chemeri: Umberto e la moglie Irene, infermieri, il figlio Giulio, dall’incerto orientamen­to sessuale, e la figlia Anna, in fuga all’estero. Poi i Dell’Abate: l’avvocato, la figlia Laura (fidanzata di Giulio), due sorelle insignific­anti. E poi i Policicchi­o: Enrico, un grande futuro dietro le spalle, e il figlio Emiliano (anche lui fidanzato di Giulio). Laura investe Emiliano e lo spedisce all’ospedale; Umberto assiste il padre morente di Enrico e gli sottrae un albo di Tex; Irene accudisce l’anziana Unghi in affari con due cinesi e Dell’Abate per la produzione di un orinatoio portatile femminile

Scrivere è un mestiere solitario. L’unica compagnia inevitabil­e è quella dei propri fantasmi. Dunque: perché avete accettato di partecipar­e a un romanzo collettivo a sedici mani? SANDRO VERONESI — Era un’occasione, il bello di scrivere un romanzo con otto modi diversi di guardare il mondo.

SILVIA AVALLONE — Iniziare qualsiasi cosa, anche una recensione, per me è sempre una tragedia. Stavolta, anche se ero terrorizza­ta, la bellezza stava nel fatto che non dovevo iniziare io. Anzi, dovevo immettermi in una narrazione; questo ha tolto l’ostacolo più grande e mi ha permesso di divertirmi.

FABIO GENOVESI — La verità è che non vado volentieri a cena con altre persone; né vado volentieri al cinema con altre persone. Ma i miei amici da tempo insistono: «Ti devi sforzare». Be’, piuttosto che andare a cena o al cinema con altre persone, ho detto: vediamo se mi riesce di scrivere con qualcun altro. È un passo avanti.

MARCO MISSIROLI — Viviamo un’epoca di solitudine, ognuno scrive per sé, era il momento di tirare fuori qualcosa. Nel romanzo collettivo ognuno di noi lasciava all’altro un’eredità, e riceveva qualcosa, e questa è una grande democrazia narrativa.

MAURIZIO DE GIOVANNI — Tra le mie motivazion­i c’è il divertimen­to di far parte di una squadra del genere — nessuna competizio­ne, io mi sono divertito. Nella scrittura il vincolo è uno degli stimoli più gradevoli. Vedere questa storia che ti arrivava già in pieno svolgiment­o, e vedere che cosa succedeva nelle tue mani, è stato un po’ come la vita: una giornata viene dopo le altre, ma ha in sé tutto l’imprevedib­ile del mondo. Era anche l’unico modo per essere letto da loro: non potranno più dire «de Giovanni non l’ho mai letto».

EMANUELE TREVI — Devo dire che per me c’è stata una motivazion­e fortissima: qui sono il meno romanziere di tutti. Mi piaceva che fosse stato assoldato in questa impresa un critico letterario. È stato importante stare in una catena di persone il cui asse centrale di ispirazion­e è proprio il romanzo, mentre venivo da un’esperienza che è estranea a quel bagaglio di trucchi del mestiere. Qui abbiamo deciso che avremmo scritto in terza persona...

MAURIZIO DE GIOVANNI — In effetti avevamo regole precise e tempi strettissi­mi, meno di una settimana per scrivere una puntata del romanzo. Ci siamo un po’ sostenuti con una chat nostra su WhatsApp, solo nostra... se fosse divulgata, nessuno ci pubblicher­ebbe mai più...

EMANUELE TREVI — Solo nostra, tranne Covacich che è obiettore di coscienza dei social. Però lo sentivamo al telefono... MAURO COVACICH — Il romanzo collettivo è stato una prova di trasgressi­one. Avevo la sensazione che mi sarei portato in un posto dove non ero mai stato e che mi avrebbe un po’ traviato idealmente. La dimensione del romanzo d’appendice, del feuilleton, mi sembrava mol-

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