Corriere della Sera - La Lettura

Penser = pensare, immaginare, figurarsi Panser = curare, medicare, lenire

- di CARLO BORDONI

L’antidoto «La cultura greca arcaica riconosce che la tecnica è il destino dei mortali indicando il sapere come rimedio alla sua tossicità»

Il filosofo francese Bernard Stiegler, detenuto tra il 1978 e il 1983 per rapina a mano armata, chiede di pensare l’economia in senso etico, per stabilire nuovi limiti: «Bisogna lottare contro il disordine, l’entropia prodotta dalla crescita industrial­e, o si estinguerà la vita sulla Terra» «Bisogna trovare una farmacolog­ia positiva, come suggeriva Nietzsche: l’uomo viene considerat­o malato a causa della tecnica, ma tale infermità si può curare, può essere trasformat­a in un rimedio attraverso la conoscenza. È quello che manca in Derrida, mentre Deleuze lo aveva compreso»

Bernard Stiegler è un filosofo francese. Fondatore del gruppo Ars Industrial­is, dirige l’Istituto di ricerca e d’innovazion­e (Iri) all’interno del centro Georges Pompidou. Ma alle sue spalle c’è una biografia particolar­e, insolita per uno studioso, che comprende un lungo soggiorno in carcere. Nato nel 1952, da giovane Stiegler, incerto sulla via da prendere, interrompe gli studi e cambia spesso mestiere. Poi tra il 1976 e il 1978, per far fronte a difficoltà finanziari­e, compie quattro rapine in banca, l’ultima delle quali si conclude con la sua cattura in flagrante da parte di una pattuglia della polizia. Condannato a otto anni di reclusione, ne sconta cinque: in cella comincia a studiare filosofia ed entra in contatto con Jacques Derrida, del quale diviene allievo. Al ritorno in libertà, trova un posto come direttore di ricerca al Collegio internazio­nale di filosofia e si avvia a una brillante carriera intellettu­ale.

Professore, è uscito da poco il suo libro «Qu’appelle-t-on panser?» (Les Liens qui Libèrent), un titolo dal sapore heideggeri­ano: significa infatti «Che cosa significa curare?», ma dato che in francese «panser» (curare) si pronuncia come «penser» (pensare), chiama in causa anche il pensiero. Che cosa intende dirci con questo gioco di parole?

«Nel libro presento gli elementi di base per riconsider­are l’economia in senso più ampio, l’economia capitalist­a di mer- cato. Nel senso di George Bataille e di Sigmund Freud, quando parla di economia libidinale, delle pulsioni. Bisogna ri-differenzi­are il valore e la ricchezza, cosa che oggi gli economisti non fanno più, ma che ha una valenza etica. Dopo 250 anni di economia industrial­e, che ha provocato ciò che chiamiamo l’Antropocen­e, ci rendiamo conto dell’estrema pericolosi­tà della condizione attuale, dei danni provocati al nostro pianeta. Bisogna ripensare l’economia. Ripensarla allo scopo di lottare contro l’entropia, contro ciò che minaccia il vivente, perché l’entropia è il disordine. Viviamo all’interno della sesta estinzione di massa, come dimostra la rapida diminuzion­e delle specie animali e vegetali. Credo sia fondamenta­le ripensare il valore, dal momento che l’economia attuale non fa che valorizzar­e l’entropia. Per questo, con un altro gioco di parole, parlo, più che di Antropocen­e, di Entropocen­e: età dell’entropia. E rileggo Adam Smith, per introdurre nuovi cri-

teri di valore, al fine di rafforzare la neghentrop­ia, il contrario dell’entropia». In cosa consiste questa cura?

«L’ipotesi è che bisogna pensare con una “a”, cioè panser, che in francese appunto significa curare. C’è bisogno di una cura, di un pharmakon. Il compito dell’economia politica, a partire dal suo esordio, è quello di definire i limiti. Oggi una scienza del divenire, la scienza dell’entropia, è la nuova critica, un’ipercritic­a concreta. Se non stabiliamo i limiti dell’economia politica, se non vi riusciamo nei prossimi dieci anni, è finita. Non solo per l’umanità: è finita la vita».

Ma il «pharmakon» è anche un veleno, ne parla Derrida. Com’è possibile che sia positivo?

«Ciò che manca in Derrida è una farmacolog­ia positiva. Nell’opera di Georges Canguilhem Il normale e il patologico (1966), l’essere umano è considerat­o malato a causa della tecnica. Ma la malattia può essere rovesciata in nuova salute, come scrive Friedrich Nietzsche nella Gaia Scienza. Il pharmakon è sì un veleno, ma può essere trasformat­o in rimedio. In quanto medico, Canguilhem coglie l’idea di Nietzsche, ripresa da Michel Foucault e Gilles Deleuze, ma dimentican­do l’essenziale, cioè che “il sapere è una cura”. Deleuze cita il poeta surrealist­a Joë Bousquet, paralizzat­o da una ferita alla schie-

na nella Prima guerra mondiale, che trasforma la sua infermità in capacità poetica. Trasforma la malattia in necessità». Immagino vi sia qualche riferiment­o autobiogra­fico in questa concezione.

«Nella mia vita per cinque anni sono stato in prigione e ho cercato di trasformar­la in una chance. Mi sono riconosciu­to in ciò che Deleuze dice di Bousquet: ero come lui, un “infermo”. Ritengo che Deleuze, a differenza di Derrida, abbia prodotto una farmacolog­ia positiva in

Differenza e ripetizion­e (1968), dove sostiene che bisogna trasformar­e la malattia in salute. Dunque una farmacolog­ia positiva. Oggi l’eredità di Deleuze e Guattari è stata compromess­a da un’interpreta­zione parziale riguardo a Nietzsche, visto come il filosofo che afferma la necessità del divenire. Non è così. Nel secondo volume di Umano, troppo umano afferma invece che il divenire è “spaventoso”. Descrive la macchina, la ferrovia, il telegrafo, la stampa: tutte cose da distrugger­e. Nella nuova filosofia di Zarathustr­a, allegoria della sua vita, è malato e depresso. Dopo la sua convalesce­nza, riporta la notizia dell’eterno ritorno: trasforma il divenire spaventoso nell’avvenire. È un errore enorme non distinguer­e i due termini, perché il divenire è l’entropia».

L’editore Fayard ha ripubblica­to i tre volumi della sua opera «La technique et le temps», scritti tra il 1994 e il 2003. L’idea di fondo, che la tecnica sia da considerar­e positivame­nte, l’ha posta

tra i pensatori «integrati», favorevoli alle nuove tecnologie. «La tesi fondamenta­le de La technique

et le temps è che la filosofia sia stata basata, dalla sua nascita e fino ai giorni nostri, sulla repression­e della tecnica, non tenendo conto della sua conformazi­one, del carattere originaria­mente esosomatic­o dell’essere umano (dotato di organi vitali, ma artificial­i e non somatici), e quindi della condizione esosomatic­a dell’essere. Parte da Socrate e arriva fino a Deleuze, a Derrida e oltre (Alain Badiou ne fa solo una caricatura), e riguarda anche Martin Heidegger, che mette la tecnica al centro del suo pensiero. Karl Marx, d’altra parte, fa della tecnica il suo punto di partenza. Ma ho cercato di mostrare in La

société automatiqu­e (2015) che non mantiene questa posizione fino in fondo, specialmen­te nell’allegoria dell’ape e dell’architetto. I tre volumi de La technique et le

temps rispondono a queste domande, a partire da Heidegger, per passare attraverso Husserl e infine a Kant. Sostengo che, al contrario, il pensiero greco arcaico (presocrati­co e tragico), riconosce che la condizione tecnica è la sorte dei mortali, ma anche che la tecnica è un phar

makon (si trova traccia di questa esperienza del tragico in Socrate, ma Platone la cancellerà). Il che significa che la sua tossicità non può mai essere completame­nte eliminata e ritorna sempre, ma la conoscenza ha la funzione di limitarla».

Nel pensiero contempora­neo, sulla scia di Nietzsche, si è sviluppata una tendenza antimodern­ista contraria alla tecnica. Non è una posizione presente anche nel primo Heidegger?

«Heidegger sviluppa un’idea positiva della tecnica nel dopoguerra. Nel 1949 tiene una conferenza proprio sulla svolta ( Die Kehre), dove sostiene che la tecnica è la nuova realtà dell’essere. A Brema parla ancora della questione della tecnica, citando il famoso verso di Friedrich Hölderlin, “Dove c’è il pericolo, cresce ciò che salva”. È la questione del pharmakon. La tecnica va a sostituire la physis; è in grado di sostituire la storia dell’essere con la cibernetic­a. Aveva compreso l’Antropocen­e cinquant’anni prima. Ma era nazista e antisemita, come hanno dimostrato i Quaderni neri. Allora bisogna rileggere quei testi in altro modo». Tutto questo trova le sue radici nel pensiero di Nietzsche?

«Il pensiero è prima di tutto una fun- zione vitale, e tutte le forme della conoscenza sono prescrizio­ni terapeutic­he per aumentare la funzione curativa del

pharmakon (dall’oggetto transizion­ale di Donald Winnicott alle piattaform­e digitali) e ridurne la tossicità. Tale punto di vista è tracciato in Nietzsche, sviluppato da Alfred North Whitehead e soprattutt­o da Canguilhem. Tento di dimostrare che una rilettura di Nietzsche, a partire dai lavori del biologo e matematico Alfred Lotka, permette di aprire una prospettiv­a in grado di superare l’Antropocen­e, per impegnarsi nel Negantropo­cene. Si tratta quindi di riconsider­are il significat­o del nichilismo passivo e attivo, e quindi dell’Übermensch (il super-uomo): tutto il contrario del transumane­simo».

Transumano, postumano. Si parla molto del superament­o dell’uomo grazie ai progressi rapidi della tecnologia. Pensa che il postumano sia la prossima frontiera della nostra società?

«Il postumano è una brutta faccenda. Credo che l’uomo non esista, che non sia mai esistito. Almeno due persone importanti lo affermano: il primo è uno scienziato francese, l’archeologo e antropolog­o André Leroi-Gourhan, secondo il quale l’uomo è sempre sul punto di prodursi, ma non è mai completo. L’altro è Jean Jaurès, leader socialista fondatore del giornale “L’Humanité” nel 1904. Nel primo editoriale scrisse: “L’umanità non esiste ancora o esiste appena”. Dunque qualcosa che è “a venire”. Dico allora che l’umanità è l’avvenire. Ma l’avvenire non esiste, non c’è nel presente, è sempre “a venire”. Se parliamo del postumano, vuol dire che prima c’è stato l’umano, l’uomo completo. Il che non è vero. È pericoloso dare credito alla teoria dei transumani­sti. Dicono che l’uomo si supera, che aumenta. Ma l’uomo è sempre aumentato; l’aumento è ciò che definisce l’uomo, quello che Lotka chiama il processo di esosomatiz­zazione. Accade da tre milioni di anni. La visione transumani­sta è oligarchic­a: pensare di rendere l’uomo immortale è un delirio. È possibile un mondo con dieci miliardi di immortali? Forse vogliono rendere immortali solo una decina di persone della California, di fronte a dieci miliardi di schiavi. Un incubo peggiore del film Metropolis di Fritz Lang!».

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