Corriere della Sera - La Lettura
Siamo un Paese multilingue senza saperlo
Una polifonia di dialetti e idiomi minoritari destinata a mutare ancora
Nel 2015 ricorreva a un’altra lingua il 6,9% della popolazione (4 milioni di persone): nel 2006 erano 2,8 milioni
Èuscito di recente un gran bel libro di difficile visibilità, Saturnini, malinconici, un po’
deliranti del critico e insegnante Nicola De Cilia, edito da Ronzani Editore di Monticello Conte Otto, provincia di Vicenza. È una raccolta di incontri con autori veneti. Tra questi, Zanzotto, Meneghello, Rigoni Stern, Naldini. E c’è anche una conversazione con Luciano Cecchinel, uno dei maggiori poeti dialettali del nostro tempo, che scrive nel suo idioma di Revine Lago, piccolo comune delle Prealpi trevigiane.
L’uso del dialetto, dice Cecchinel, è stato «un fatto naturale, prerazionale»: «La lingua dell’intimità coincideva con quella di una cultura in cui erano ancora presenti aspetti di vita pregnante, sì che le parole elise e troncate erano gli spigoli dei tronchi e delle pietre, i suoni stessi della natura e del- la fatica». È venuta, dopo, una fase diversa e più consapevole, quella in cui il dialetto è diventato «l’indicatore linguistico di una condizione di subalternità» e dunque per questo, in chiave di sfida e di resistenza, prosegue Cecchinel, «quel registro è divenuto sempre più aspro e, a tratti, virulento».
Ci sono scrittori, la maggioranza, per i quali la scelta della lingua non si pone (anche se ogni scrittore degno di questo nome, a ben guardare, si costruisce la propria lingua, ma questo è un altro discorso): nel senso che inevitabilmente il codice adottato è quello della lingua materna, spesso coincidente con quello della comunicazione quotidiana: accettata, rielaborata o stravolta. Per altri, come Cecchinel, la lingua è il frutto di una decisione netta, non di rado un tormento. La scelta del dialetto o di una lingua minoritaria ha (o va acquistando) spesso un retropensiero civile: sfida o resistenza. E certo, la lingua con cui siamo cresciuti, se non è quella piatta e incolore della comunicazione televisiva, conserva sempre per ciascuno di noi «un gocciolo del latte di Eva», come diceva Zanzotto a proposito del suo dialetto. E anche per questo piace ai poeti.
Al di là delle più opportune definizioni specifiche e dei possibili distin-
guo tecnici, i dialetti si possono considerare al pari di lingue minoritarie che, nonostante i ricorrenti necrologi, rimangono tuttora vive come mostrano le statistiche Istat: secondo cui un terzo della popolazione parla abitualmente, accanto all’italiano, anche un idioma locale.
Nel 2011 Tullio De Mauro, introducendo un saggio di Anna Bogaro, Let
terature nascoste (Carocci), parlava di una nebbia ancora più fitta calata in Italia su quegli idiomi diversi dall’italiano (e dalle sue varietà regionali) che risuonano dentro i confini nazionali. E lamentava che, malgrado l’impegno solenne dell’articolo 6 della Costituzione, ci fossero voluti cinquant’anni perché, nel 1999, venisse approvata una legge a tutela di gran parte delle vere e proprie lingue di minoranza, cioè quelle storicamente presenti in Italia: sardo, friulano, sloveno, arbëreshe, grecanico, catalano, croato, franco-provenzale, occitano, francese, tedesco, ladino. Come fa notare Fiorenzo Toso ( Le minoranze linguistiche in
Italia, Il Mulino, 2008), si tratta pur sempre di un concetto scivoloso che a volte, ma solo a volte, si sovrappone con quello di «minoranza nazionale», essendo sopravvivenze di vicende tra loro diverse. Il walser di discendenza germanica, parlato in comunità della Valsesia e della Val d’Ossola, o il grico salentino, di origine ellenica, appartengono al patrimonio linguistico italiano. L’arbëreshe è il risultato dell’immigrazione albanese avvenuta dalla metà del XV alla metà del XVIII secolo in Veneto, Abruzzo e Molise ma sedimentata soprattutto in Calabria, Puglia e Sicilia.
Secondo l’Istat, nel 2015 ricorreva a un’altra lingua il 6,9% della popolazione (all’incirca 4 milioni di individui, nel 2006 erano circa 2 milioni 800 mila). «L’Italia è multilingue e non lo sa, e nemmeno vuol troppo saperlo», proclamava De Mauro. Fatto sta che la vitalità dei singoli idiomi si gioca sull’«ancoraggio a una scripta » (sempre De Mauro dixit) e dunque anche sulla sua capacità di veicolare opere letterarie. Se, come osservava il grande filosofo e linguista tedesco Wilhelm von Humboldt, il respiro della creatività artistica vivifica una lingua (e ciò vale sempre più anche per i dialetti), è tutt’altro che fatuo andare a vedere che cosa accade alle letterature (italiane) scritte in lingue non italiane. La constatazione è che non accade molto, per la verità.
Tre profili significativi e tra loro diversi per tipologia, generazione e col- locazione geografica: il triestino ultracentenario scrittore in lingua slovena Boris Pahor, il cui pubblico italiano, che non può che leggerlo in traduzione, è diventato negli ultimi anni sempre più numeroso; il drammaturgo di Udine Carlo Tolazzi, che scrive in friulano e si definisce «scrittore translingue»; il narratore Carmine Abate, ben noto autore «tra le lingue», nato a Carfizzi in Calabria da famiglia arbëreshe emigrata in Germania ( Le rughe del
sorriso è il suo nuovo romanzo, Mondadori). Bisognerà aggiungere sempre più, alle lingue delle minoranze, le realtà degli idiomi portati dagli immigrati e probabilmente destinati, alla lunga, ad alimentare la letteratura italiana anche sul piano linguistico oltre che sul piano immaginativo. Del resto, per la narrativa in lingua inglese si parla di una «creolizzazione» già ampiamente avvenuta (vedi Hanif Kureishi e Zadie Smith). «La letteratura della migrazione — prevede Bogaro — scuote le fondamenta degli antichi palazzi delle tradizioni letterarie europee». Può darsi che si realizzi una miscela creativa, ma ciò non esclude un’azione «aspra e a tratti virulenta», in chiave di resistenza e di sfida, un po’ come Cecchinel intende il suo scrivere in dialetto.